Frank Cornelissen: un pioniere “vigneron” sull’Etna

di Vittorio Ferla

“Vengo dal commercio. Ero un broker di vini. Vendevo all’estero. Mi occupavo di vini pregiati per cantine private. Questo lavoro mi ha permesso di capire il vino. Non ero legato a un marchio in particolare e questo mi ha permesso di mantenere la passione per il vino”.

Frank Cornelissen mi accoglie nella sua cantina di fronte alla Chiesa di Passopisciaro, una frazione di Castiglione di Sicilia. Siamo nel cuore della viticoltura dell’Etna. Un piccolo borgo dal nome un po’ ridicolo che sembra quasi senza vita. Se non lo sai, non puoi nemmeno immaginare che qui sia l’epicentro di un risveglio vitivinicolo apprezzato in tutto il mondo.

 

La scoperta dell’Etna

Frank Cornelissen aveva capito tutto anni fa. Quando arrivò qui dal Belgio, con lo spirito e la filosofia del pioniere, l’Etna era ancora la provincia sonnolenta dell’impero del vino. “Il boom del vino italiano – spiega – risale agli anni ’80. Io sono arrivato qui nel 2001 e ho percepito le enormi potenzialità di questa vallata a nord del vulcano. L’Etna ha le caratteristiche delle grandi zone viticole: clima freddo, molta luce, caldo ma non troppo. Quando io sono arrivato queste terre erano abbastanza sconosciute e l’etichetta dell’Etna nemmeno circolava. C’era già qualche produttore come Torrepalino, Valcerasa e Benanti. Nulla di più”.

 

L’artigiano del vino

Frank è un uomo essenziale, si capisce subito. I tratti del viso regolari e scavati. Occhi chiari e sinceri. Pochi i gesti, lenti ma fermi. Parole, solo quelle che servono.

Volevo solo fare il vino. Non avevo in mente di mettere su un’azienda. Se l’avessi saputo non avrei nemmeno incominciato. Gestire un’azienda è una roba molto complessa. Oggi devo gestire 8-9 persone in vigna e 2-3 in cantina. Questo io non lo volevo”.

Idee molto chiare: “Queste etichette che fanno i business plan non sanno niente di vino. Quello del vigneron è un concetto che in Italia non esiste. Io sono legato all’artigianato del vino. Nel bene e nel male. Se sei fissato sull’aumento della qualità – continua – puoi crescere. bottiglie

Oggi produco più di 70 mila bottiglie, ma ci ho messo 15 anni per arrivare a questo punto e non ho mai preso un contributo pubblico. Il mio vino è apprezzato, altrimenti non funzionerebbe”.

 

L’importanza delle radici

Quanto conta l’Etna in questa storia? Tanto. Forse tutto. “In agricoltura il radicamento nel territorio è fondamentale. Il binomio perfetto è: vini radicati di persone radicate. Non credo a quegli imprenditori che vivono da un’altra parte e poi vengono qui a visitare le vigne. Bisogna vivere nel contesto”. Forse è proprio questo il motivo per cui – come molti confermano – Frank Cornelissen conosce queste contrade molto meglio degli stessi siciliani, lui che è qui da appena 15 anni.

Questo è un posto speciale. L’Etna ha tutte le carte in regola per fare ottimi vini: un sottosuolo complesso, il clima, gli sbalzi termici importanti tra il giorno e la notte. E poi la vite, qui, non è una monocultura. Amo questa complessità ambientale nella quale, insieme alle vecchie viti ad alberello, trovi alberi di ulivo o da frutto, proprio in mezzo alla vigna. In Piemonte apri la finestra e vedi tutto uguale e senti puzza di zolfo. Qualcosa di simile, in realtà, c’è anche in Borgogna”.

“Se un giorno succederà lo stesso qui – continua – io sarò già morto. Qui sull’Etna ci sono due vantaggi. Il primo: siamo all’inizio. Il secondo: c’è tanta pietra intorno e scavare costa tanto… Io ho più di cinquant’anni e ancora 25 vendemmie da fare… Lavoro per la prossima generazione…”.

Diventa spigoloso quando gli chiedo se c’è dialogo tra “colleghi” viticultori della zona. “Non vado a cercare le persone solo perché fanno il vino. Non so di che cosa dovremmo dialogare. Se hai dei problemi li risolvi con chi serve. Con gli amici magari parlo dell’Opera, ma non continuo a parlare sempre di vino…

 

I vigneti: un’estrema diversità

anforeI vigneti di Frank Cornelissen coprono 18 ettari di proprietà distinte (e distanti), 6 mila piante per ettaro per un totale di circa 110 mila piante. Il prossimo inverno entreranno altri due ettari nuovi. Soltanto vigneti nerello mascalese. E poi un po’ di uva alicante, nerello cappuccio, uva francese e carricante.

Il mio approccio è molto umile. Stiamo lavorando con il patrimonio culturale di altre generazioni”. Un enorme rispetto per quello che ha trovato. Ecco perché ogni vigneto di Cornelissen è diverso dall’altro: in zona Picciolo c’è l’alberello in spalliera a zig zag, a Calderara la spalliera a guyot, Crasa ha i filari dritti, e via elencando. Un lavoro certosino: 800 grammi per vite di media (densità necessaria per un discorso di qualità) per un totale di 80 mila bottiglie.

C’è tanto da imparare dai vigneti. L’alberello mi piace perché fa parte dell’architettura della zona; nel guyot i tagli per la potatura sono più grossi e la pianta può prendere malattie, ma devo farla per garantire la giusta produttività; stessi problemi per la controspalliera, ma basta farla bassa; l’alberello non è adatto alla gestione delle foglie, ma nel sud le foglie proteggono dal sole le piante, specie nel caso dei bianchi. Noi cerchiamo di non trattare ma non ci riesce sempre. In alcuni anni difficili abbiamo usato il classico preparato di zolfo-ramato per evitare la perdita totale della produzione”.

 

Il senso del vino per Frank

I miei vini sono frutto del territorio. Non cerco altri gusti, correzioni o ‘tagli’. È come se una donna si coprisse con una overdose di profumo”. Niente additivi, le regole in questa cantina sono chiare: “Zero profumo aggiunto, zero correzioni solforose”. Cornelissen lavora in ambiente asettico. Usa l’ozono dappertutto per disinfettare. Dei tappi di materiale speciale. Lo scambio di ossigeno è ridotto al minimo. “Se diventa tutto stralegnoso non si capisce più nulla. Da me non c’è legno. E nemmeno acciaio. Ho scelto la vetroresina”. Un approccio molto rigoroso e coerente con la sua concezione del vino.

Ci tiene a chiarire: “Non faccio la vinificazione ‘naturale’. Non mi piace. E non esiste. La mia vinificazione è una tecnica, non una religione. Espone a molti rischi. E i costi sono elevati. Per esempio, costa molto l’argon, un gas nobile che uso per togliere gli odori quando facciamo travasi e imbottigliamento”.

giare“Per la conservazione del vino – spiega – usiamo le tradizionali giare (anfore) di terracotta di questa zona, interrate nella pietra lavica macinata: hanno la forma ideale, bombata, per la fermentazione del mosto, per assorbire al meglio dalla feccia fine e per tirar fuori gli aromi caratteristici del territorio. La porosità della terracotta però crea problemi: il vino trasuda troppo e il nerello mascalese è troppo fragile rispetto all’ossidazione. Ecco perché ho scelto di ‘vetrificarle’, cioè rivestire le anfore con la resina epossidica. Lo scambio di ossigeno si fa poi grazie alle lastre di pietra lavica. In questo modo si crea un maggiore equilibrio”.

Per tutte queste caratteristiche, Cornelissen è considerato da molti un radicale, se non un maniaco. Non mi pare un giudizio appropriato. Piuttosto: rispetto, umiltà, grande responsabilità verso il territorio e verso la materia prima che deve trattare. La consapevolezza che bisogna gestire con la giusta cura e ‘interpretare’ in modo corretto qualcosa che ti è stato soltanto affidato. C’è qualcosa di calvinista in questo approccio, che unisce il rigore del lavoro ad un profondo senso etico.

 

Nerello mascalese: l’impronta delle contrade

“Il mercato non è ancora pronto. Manca la mappa di questa zona. Ci vorrà almeno una generazione per spingere sulla concezione delle contrade. Le contrade sono importanti perché si nota subito la differenza nei vini. In Borgogna non fanno certo un vino generico: la differenza c’è e si nota. E poi c’è un problema di riconoscibilità stilistica oltre che di territorio”.

Spiega Cornelissen: “Alcuni vigneti – come Piano Daini, Crasa, Malpasso – non li vedo da soli. Il vigneto rappresenta il vino: da noi, tutto ciò che non è Nerello Mascalese finisce nel Contadino. E ogni anno questo vino cambia”. Al di fuori dei disciplinari, aggiungiamo noi. Una perfetta dimostrazione del “fenomeno” Cornelissen: rigore radicale mescolato ad eclettica anarchia.

“Il MunJebel classico – continua – è come il Barolo classico: rappresenta l’Etna della vallata nord, c’è una armonia di tutto. Il futuro è dei vigneti singoli, i cru. Noi ne facciamo già cinque. Ma ci vorrà del tempo”.

E il 2015 che cosa propone? “Sono contento del bianco e del rosato. Sui rossi vedremo: il tempo darà la risposta”.

 

L’Etna? Il meglio deve ancora venire

serbatoiL’Etna è all’inizio. Come me, Andrea Franchetti – fondatore dell’azienda Passopisciaro, ndr – è arrivato qui nel 2001, Marco De Grazia – fondatore dell’azienda Terre nere, ndr – nel 2002. Fa pensare che nessuno di questi sia siciliano… Quando sei troppo vicino non ci credi. Ora c’è un boom di imprenditori, ma bisogna vedere chi resiste. In Borgogna ci sono 5mila produttori, ma il tam tam lo fanno in 50. Qui, al massimo, ci sono dieci aziende che fanno la reputazione dell’Etna. C’è chi ancora arriva per opportunismo o per investimento, certo. Perché no? Ben venga, ma non aggiunge nulla. L’80 per cento di ciò che c’era da fare lo abbiamo fatto. Adesso manca il 20 per cento, ma ci vorrà tanto tempo: l’Etna d’ora in poi andrà a confermarsi dopo una fase molto veloce che è servita anche per scartare delle aziende. C’è l’assestamento adesso, la fase è più stabile”.

Cornelissen va ascoltato con grande attenzione. È portatore di una saggezza inconfutabile: “Le cose si fanno con il tempo – dice – e ogni anno c’è una sola vendemmia”.

Al termine della conversazione mi accompagna in una degustazione (qui il racconto), con modi semplici e accoglienti. La visita finisce: ci salutiamo. Cornelissen mi stringe la mano e si apre in un sorriso caldo che sembra un arrivederci. Franco nel nome e nei modi, sotto la scorza del contadino i suoi occhi sono affettuosi. Chissà, forse ho conquistato la sua fiducia.