
di Paolo Peira
Tradizionalisti o modernisti?
La tipicità del vino è da sempre un argomento di grande attualità. Da una parte, troviamo i “tradizionalisti”, coloro che si ergono a tutela di un prodotto che dovrebbe essere immutabile e costante nei confronti di una richiesta volubile e sempre più varia; dall’altra parte, troviamo i “modernisti”, coloro che hanno eletto consumatori e clienti come unici soggetti ai quali i produttori di vino dovrebbero dare ascolto, modificando registri sensoriali e stile, a seconda della moda e dei gusti di chi la fa e di chi la segue. Inoltre, la tecnica e la ricerca enologica proseguono per la loro strada e offrono all’enologo strumenti e conoscenze sempre più performanti per influire sullo stile di un prodotto. Forse non è vero, come taluni affermano, che a partire da uno stesso mosto si possano ottenere infiniti vini diversi, però è certo che oggi, molto più di ieri, possiamo privilegiare alcune strade e non altre e favorire la sintesi di determinati profumi, semplicemente utilizzando uno specifico prodotto, una specifica tecnica, in vigna quanto in cantina.
La tipicità evolve
Prima di procedere oltre e decidere se sia giusto schierarsi sul fronte dei modernisti o su quello dei tradizionalisti, bisognerebbe fermarsi un momento e riflettere sul significato intrinseco di tipicità. Senza fare ricorso agli scritti di Plinio e Columella, che già lamentavano allora la presenza di sofisticatori ante literam, colpevoli a detta loro di aggiungere fieno greco nei vini allo scopo di arricchirlo in profumi di curry, di rancido, di miele, tutti caratteri ricercati dai consumatori dell’epoca (oggi si è scoperto che il fieno greco contiene concentrazioni molto elevate di sotolone, un molecola effettivamente presente in quegli stessi descrittori), ricordiamo brevemente che dagli anni ‘60 ad oggi lo stile ed il carattere dei vini si sono radicalmente modificati. Si è infatti passati da uno stile di vino bianco, negli anni ’60 e ’70, molto leggero, bianco carta, dove l’unico pregio consisteva nella sua stabilità fisico-chimica, ma da cui risultava difficile, se non impossibile, dedurne varietà o origine geografica, ai vini bianchi degli anni ’80 e ’90, dotati di una gradazione alcolica più elevata, con acidità più contenute, ricchi in corpo, colore e struttura.
Compiacere il mercato
La differenza di stile è stata ancora più accentuata nei vini rossi dove la volontà di raccogliere uve sempre più mature ed il ricorso sempre più frequente alla concentrazione, ci ha consegnato vini molto intensi e colorati, marcati dal legno, spesso con residui zuccherini e acidità volatili eccessive destinati ad aumentare dopo qualche anno di bottiglia, in quanto una filtrazione finale troppo stretta era ritenuta di ostacolo all’integrità del prodotto. Erano vini affascinanti ed innovativi che vincevano premi e concorsi ma che nel corso degli ultimi anni hanno mostrato limiti per la difficoltà di essere bevuti dal consumatore quotidiano. Il vino di quegli anni doveva essere, per usare un’espressione tanto cara ai produttori d’Oltreoceano, “full bodied”, e noi tutti dietro, per cercare di compiacere un mercato nuovo ma in espansione e che ricercava questo stile. Anche in questo caso risultava molto complicato riconoscere in quei vini la tipicità di un territorio o di una varietà. Da tutto ciò appare evidente che la nozione di tipicità non è fissa ed immobile nel tempo ma evolve a seconda dei periodi storici, soprattutto in funzione della tipologia di consumatore che si intende affascinare.
Disciplinari fumosi
Il problema semmai si presenta talvolta all’interno delle commissioni di degustazione delle Camere di Commercio, per l’assegnazione di idoneità delle diverse denominazioni di origine, dove la tipicità dovrebbe essere uno dei parametri da considerare per decretare il successo, cioè il passaggio alla commercializzazione. Tuttavia, facendo una breve rassegna dei numerosi disciplinari, sebbene si faccia largo uso della parola tipicità, non se ne comprende appieno il significato in quanto tra le caratteristiche che un vino dovrebbe possedere al momento del consumo, troviamo indicatori quali: odore profumato, intenso, fragrante e sapore morbido, delicato, armonico. Tutti termini in astratto, che non rappresentano di per sé caratteristiche uniche e irriproducibili. Inoltre, i disciplinari di produzione cambiano, si evolvono, e spesso vengono aggiunte talune varietà (quasi sempre le stesse) in grado di modificare, anche sostanzialmente, il vino risultante.
Ovviamente, non parlo delle denominazioni di grande prestigio internazionale, dotate di un forte appeal proprio perché rappresentano il risultato di anni di costanza e tradizione di produzione e di disciplinari e che non hanno bisogno di rivisitazioni continue. Mi riferisco a vini come il Brunello di Montalcino o ai grandi piemontesi – Barolo e Barbaresco – senza scomodare le grandi denominazioni bordolesi quali Pauillac, Margaux o Saint-Estèphe o di Borgogna quali Pommard e Mercurey per i rossi o Pouilly Fuissé e Chassagne Montrachet per i bianchi, che sono spesso il risultato di monovitigni e quindi risultano più facilmente riconoscibili dai consumatori più esperti.
Patrimoni aromatici
Forse oggi, per la prima volta, a dispetto dei cambiamenti degli ultimi 30-40 anni, ci sembra di percepire una giusta tendenza ed una chiara volontà da parte dei produttori di presentare vini rispettando maggiormente il profilo varietale dei vitigni impiegati. In fondo, la tipicità dovrebbe consistere proprio nella ricerca di mantenere inalterato il patrimonio di aromi e di precursori d’aromi presenti in un determinato vitigno, nel tempo e nello spazio, evitando di mascherarli o coprirli con sentori “estranei”. Probabilmente, la maggiore garanzia che possiamo offrire al consumatore di oggi è quella di preservare e mantenere pressoché inalterato il patrimonio aromatico di ogni singola varietà, così che il consumatore possa percepire ciò che si attende al momento della scelta di una vino rispetto ad un altro.
Alla prossima puntata, il compito di tracciare un profilo molto generico di alcuni descrittori tipici per ogni singola varietà, con la dovuta premessa che esistono interferenze e sovrapposizioni aromatiche tra le diverse tipologie di uva.
Paolo Peira