Marco De Grazia: la rivoluzione del vino sull’Etna

di Vittorio Ferla

Arrivo a Calderara Sottana, contrada del territorio di Randazzo, in provincia di Catania, ad ora di pranzo di un giorno di fine dicembre. Sono in ritardo, ho sottovalutato i tempi di percorrenza sull’Etna, le strade che si arrampicano e si attorcigliano. Soprattutto, ho sottovalutato la ricchezza di questi luoghi che pretendono molto tempo per essere attraversati, scoperti e compresi. L’inverno è un momento speciale per i vigneti. Il momento del silenzio e del riposo. Le piante sono spoglie e nervose. Qui sull’Etna sono disposte o arrampicate su antiche colate di magma lavico rapprese che qui si chiamano sciare. A volte sono terreni di sabbia vulcanica, a volte sono ricchi di pietre. Predomina ovunque quella cromatura dark che fa di questo paesaggio un luogo quasi immaginario, alla stessa stregua di un universo tolkeniano.

 

Etna: quell’anno in cui è cambiato tutto

La cantina

La cantina

Non a caso dunque, quando Marco De Grazia arrivò qui all’inizio del secolo scelse di chiamare la sua azienda Tenuta delle Terre Nere. La sede è nella Contrada di Calderara Sottana, la cantina è nuova – anche se costruita nel rispetto dell’architettura locale – e si trova su un piano pietroso che guarda la vetta del vulcano e il sole che lo sovrasta.

“Prima non esisteva l’azienda, ma solo i vigneti. Vi lavoravano semplici contadini che vendevano vino sfuso. La viticoltura, qui, è roba antica: il Nerello fu portato dai Greci, molto probabilmente. La tradizione vinicola esiste da tempo, ma il potenziale che portava dentro di sé non è mai stato adeguatamente sviluppato. E così, oggi, siamo ancora lontani dai francesi che hanno 300-400 anni di esperienza di vini di qualità”. A parlare è Marco Ciancio, responsabile del marketing e della comunicazione dell’azienda. Viene da Biancavilla, un paese che sta esattamente dalla parte opposta dell’Etna ed è uno dei vertici del triangolo agrumicolo catanese con Paternò e Adrano. Laureato in comunicazione internazionale, lavora a Terre nere dal marzo 2013. Mi fa salire sul fuoristrada e mi accompagna per queste contrade, raccontando con professionalità lo sviluppo e la linea dell’azienda.

“Prima più vino avevi e meglio era”, spiega. “Il vino era un bene primario e doveva essere prodotto in gran quantità, a scapito, ovviamente, della qualità. Ma da quando è arrivato De Grazia qui è tutto cambiato”. In che senso ‘tutto è cambiato’? Per capirlo facciamo un passo indietro.

 

Borgogna, Langhe, Etna: il triangolo dell’eleganza

Che cosa hanno in comune la Borgogna, le Langhe e l’Etna? Apparentemente nulla. Luoghi bellissimi, ma a differenti latitudini, lontani, diversi per storia e cultura, per lingue e dialetti.

Eppure qualcosa in comune c’è.  In primo luogo, il terroir (o, se preferite, il climat): le condizioni particolari del terreno e del clima del microcosmo etneo, insieme alla altitudine elevata, permette di realizzare vini in qualche modo simili a quelli della Borgogna o del Barolo. E poi ci sono i vitigni.

Il Pinot Nero di Borgogna. Il Nebbiolo delle Langhe. Il Nerello dell’Etna. Tante differenze, certo. La Borgogna: una esperienza secolare di vinificazione, una collocazione consolidata nella fascia medio alta del mercato, con prezzi a volte eccessivi. Le Langhe: terra del Barolo, un’eccellenza ormai confermata dell’Italia del vino, una forza speciale nel mercato internazionale, subito dopo i grandi vini toscani. Infine, l’Etna, l’ultima arrivata, arcaica e selvatica nella sua geografia, affacciatasi da pochi anni nel paradiso dei vini di eccellenza. Non si può fare di tutte le uve un generico mosto, certo. Non si può negare, tuttavia, che tra questi vitigni esista una parentela fatta di rossi scarichi, d’intensità di profumi e di gusto, di tannini importanti e allo stesso tempo di finezza ed eleganza pienamente conquistate.

 

C’erano una volta i “Barolo Boys”

Marco De Grazia – il proprietario di Terre Nere – entra in scena qui. È lui il protagonista e, per molti, la guida della rivoluzione del Barolo nelle Langhe, a partire dagli anni ’80. Da quel momento si comincia a parlare dei Barolo Boys, ovvero di quei giovani produttori che cambiano il modo di fare il vino: utilizzo di barrique nuove, rese minori di uva in vigna per garantire una migliore qualità, ricerca del massimo della maturazione. De Grazia, commerciante di vini, laureato in filosofia all’Università di Berkeley, amante dei Pinot di Borgogna, entra con piena consapevolezza nel mondo del Barolo, chiede agli enologi di portare l’uva al suo compimento, rispettando le caratteristiche del territorio. Non solo, dunque, una trasformazione tecnica, ma una filosofia basata sul rispetto, la cura e la divulgazione del terroir, a partire dall’investimento sui cru delle Langhe. Da qui la fortuna commerciale del Barolo a livello internazionale. Il logo “BB” (Barolo Boys) venne coniato dopo lo sbarco negli Usa, trampolino di lancio di un vino allora poco apprezzato.

 

Il secolo dell’Etna

Tutto questo accadeva nel secolo scorso. Superata la boa del 2000, De Grazia cerca di replicare il miracolo sulle sciare dell’Etna. Stavolta, però, mette in piedi un’azienda tutta sua. Parte da un terreno che ha qualcosa di leggendario: nella contrada di Calderara Sottana infatti si trova un vigneto di antichi alberelli che ha resistito alla fillossera. L’innovazione ha sempre radici antiche.

Marco Ciancio

Marco Ciancio

“Quando Marco De Grazia arriva qui – spiega Ciancio – la cantina non esiste ancora e il territorio è inesplorato. Punta subito e senza esitazione sui vitigni autoctoni: nerello mascalese, nerello cappuccio, carricante. L’investimento gli permette di produrre già 5 mila bottiglie nel 2003-2004. L’esperienza fatta con il Barolo è cruciale per mettere al centro la diversità delle contrade. Prima la vendemmia si faceva tutta insieme, ora invece abbiamo vendemmie diversificate a seconda del terreno e della contrada”.

“La Tenuta delle Terre Nere – continua Ciancio – possiede vigneti in quattro contrade tra i 600 e i 900 metri s.l.m. nella fascia collinare che si estende tra la frazione di Solicchiata e Randazzo. Fin dalla prima vendemmia del 2002 vinifica le uve ed imbottiglia i vini delle contrade separatamente. Puntiamo sulla qualità delle uve e tutto è lavorato in biologico: i tralci tagliati sono rimescolati al terreno, niente chimica, preferiamo la mistura bordolese di rame e zolfo”.

Le vigne che visitiamo hanno un’età media di 50-90 anni, a dimostrazione dell’investimento sui vigneti autoctoni. Calderara è il cru, è il vino della contrada. Si producono tre vini base (rosso, bianco, rosato), un vino (prephilloxera) che è una rarità, ben due bianchi fatti di carricante in purezza con due cru, chiamati entrambi “Vigne niche” (uno proveniente da Calderara Sottana e l’altro da Santo Spirito).

 

La “Borgogna del Mediterraneo”

De Grazia capisce in fretta che l’Etna poteva offrire ai palati più esigenti le infinite sfumature del suo Nerello allo stesso modo in cui fa da anni la Borgogna con il Pinot Nero. L’Etna poteva essere, per una serie di ragioni convergenti, la “Borgogna del Mediterraneo”. Arrivarci, però, non è stato facile. A partire dal 2005, la Tenuta delle Terre Nere inizia una lunga trafila per formalizzare a livello ministeriale la definizione delle sottozone storiche. Soltanto nel 2012 il Ministero dell’Agricoltura approva la zonazione dei comuni Etnei più importanti, operata mediante la ricostruzione dei confini delle contrade storiche.

Insomma, le basi adesso ci sono, probabilmente le segmentazioni diventeranno più complesse, si aprono nuove prospettive. Questo è il sogno: classificare i terreni in modo sempre più minuzioso, proprio come in Borgogna.

I primi frutti di questo lavoro sono già a portata di bicchiere. Prodotti di grande qualità e ben distinti tra loro, per via del diverso terreno di coltura. “Le differenze di suolo e di clima si vedono ad occhio”, spiega Marco Ciancio: “gli appezzamenti di Contrada Calderara Sottana, tra i 600 e i 700 metri di altitudine, sono caratterizzati dalla più elevata presenza di pietra vulcanica dell’intera Doc”.

Terrazzamenti di vigne sull'Etna

Terrazzamenti di vigne sull’Etna

Ci spostiamo a Contrada Guardiola, tra gli 800 e i mille metri. “Qui abbiamo terreni di sabbia vulcanica, pietrisco basaltico e cenere, in fortissima pendenza e in stretti terrazzamenti che richiedono di eseguire tutte le lavorazioni manualmente e ci obbligano al ripristino continuo dei muretti a secco. Contrada Guardiola è il punto più alto della nostra proprietà ed è la seconda vigna dell’azienda – spiega Ciancio mentre il fuoristrada si inerpica tra le colate laviche – ospita vigne di 80 anni con 8 mila piante per ettaro e produce 5-6 tonnellate per ettaro. La vendemmia si fa tardiva ad ottobre”.

“In Contrada Feudo di Mezzo – continua – abbiamo altri vigneti vecchissimi e terrazzati, ricchi di cenere vulcanica, con impianti ad alberello tradizionale fittissimi. La Contrada Santo Spirito, adiacente alla Guardiola, è caratterizzata da terreni molto profondi composti quasi esclusivamente da cenere vulcanica finissima che sembra talco nero. Santo Spirito è ideale per fare un grande rosato: siamo stati tra i primi a produrlo e oggi va molto forte all’estero”.

 

Tra Carricante e Nerello: la fatica della selezione

Questa varietà di terreni, unita all’acquisto di uve da piccoli viticoltori dei vigneti limitrofi, garantisce la diversificazione dei vini e la produzione di quei cru che sono l’orgoglio dell’azienda. “Abbiamo due versioni di Etna Bianco per un totale di 50 mila bottiglie – continua Ciancio – uno, in quantità molto limitata, di solo Carricante (leggi il racconto della degustazione qui), fermentato ed affinato in legno, concepito per un lungo invecchiamento.

Bottiglie Tenuta delle Terre Nere

Bottiglie Tenuta delle Terre Nere

Le 100 mila bottiglie di Etna Rosso derivano dalla vinificazione di Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio: quello proveniente da vigne giovani è meno complesso e pronto da bere. Dalle vigne più vecchie e selezionate provengono i cru. Di Nerello Mascalese e Cappuccio è anche l’Etna Rosato, 20 mila bottiglie prodotte, anch’esso vino di grande pregio e ormai ricercatissimo all’estero. Ogni cru fa 7-8mila bottiglie. In cantina usiamo acciaio e rovere: i cru fanno 18 mesi di barrique e un mese in acciaio, 7 mesi di acciaio per il bianco base e il rosato, il rosso base sosta in botte grande per 12 mesi”.

Non basta. C’è anche “Le vigne di Eli”, un’etichetta dai tratti delicati e femminili, disegnata da Elena, la figlia di De Grazia: solo 20 mila bottiglie per un pubblico meno sofisticato, il cui ricavato finisce in parte in dono alla Fondazione Mayer di Firenze.

“Questo è un territorio molto giovane e scopri ogni giorno qualcosa di nuovo. Il vulcano dà prodotti speciali: i nostri vini non sono mai standardizzati”, chiarisce con orgoglio. “Cerchiamo sempre la qualità. Ciò significa rischiare di non fare il vino quando non siamo convinti della bontà dell’uva: nel 2013, per esempio, abbiamo buttato molto mosto prodotto nello sfuso. D’altra parte, non è facile lavorare le vigne qui sull’Etna: per fare del buon vino sull’Etna devi essere un buon viticultore. Qui è molto importante la manodopera: abbiamo 25 operai per 28 ettari. Il che chiarisce sull’importanza della manualità là dove la meccanizzazione può limitarsi solo a trattori piccolissimi. In più, investiamo molto nella ricerca: qui si usano lieviti selezionati e speriamo di ricavare presto lieviti autoctoni dai nostri grappoli”.

 

Un futuro luminoso. Con una radice antica

“Il consumatore può capire perché costa tanto ed è di qualità. Noi ci attestiamo in una fascia medio alta e per questo ci rivolgiamo ad acquirenti di livello. Allo stesso tempo, riteniamo che il vino debba essere un prodotto per tutti, dunque ‘arrivabile’: ecco perché le nostre bottiglie costano la metà dei Borgogna, pur occupando la stessa fascia di qualità”.

Ciancio conferma che “il mercato risponde molto bene, tanto che oggi sull’Etna abbiamo già 80 produttori. L’Etna ‘tira’: è l’astro nascente della Sicilia e nei prossimi 20-30 anni riscuoterà sempre più successo. Peccato soltanto che non si riesca ancora a fare gruppo insieme”.

Alberello di vite prefillosserica

Alberello di vite prefillosserica

La visita sta per concludersi. Tornati in Contrada Calderara Sottana attraversiamo una ferrovia abbandonata che passa di fronte alla cantina e arriva a Taormina. È considerata un bene d’interesse storico e qualcuno, nelle istituzioni, sostiene che prima o poi potrebbe essere riutilizzata. Mah…

Oltre i binari ricoperti dalla vegetazione c’è la leggendaria “vigna di don Peppino“, un piccolissimo appezzamento le cui viti sono sopravvissute alla fillossera. Don Peppino è il vignaiolo che ha coltivato questa vigna con dedizione e competenza per 70 anni, consegnandola splendidamente conservata all’arrivo di De Grazia. Da qui viene un vino unico al mondo: sia perché frutto di piante “nobili” e rare che hanno resistito alla fillossera, sia perché esprime l’antica quintessenza del Nerello.

È il fiore all’occhiello di Terre Nere: si chiama, appunto, “Prephilloxera – Vigne di don Peppino”. E dimostra che il futuro luminoso di un prodotto giovane ha una radice antichissima.