L’Astore: vini dal Salento, luce d’Europa

di Vittorio Ferla

Masseria L’Astore è il luogo ideale per immergersi completamente nella cultura e nella tipicità del Salento. Circondata da circa 100 ettari di vigneti e uliveti, sorge a Cutrofiano, nel cuore della provincia di Lecce, a metà strada tra Gallipoli e Otranto. Una terra tutta pianeggiante, compresa tra due mari: l’Adriatico, da dove il sole sorge, e lo Ionio, dove il sole tramonta. Proprio grazie a tali caratteristiche queste campagne sono sempre illuminate dal sole. Non è un caso, dunque, che la scelta del simbolo dell’azienda sia ricaduta sull’Astore, un rapace diurno soprannominato ‘l’uccello di Apollo’ perché sacro al Sole, con i suoi occhi fiammeggianti di luce.
img_8209Il complesso architettonico che è la base dell’attuale Masseria fu fondato nel ‘600 dai Filomarino, una famiglia di nobili napoletani, duchi di Cutrofiano, proprietari terrieri fino al Capo di Leuca. I membri della famiglia ricoprirono prestigiose cariche in campo civile, militare ed ecclesiastico. Ebbe numerosi feudi e fu insignita, nei suoi vari rami, da varie onorificenze e titoli. Può contare, tra gli altri un arcivescovo di Taranto, Stefano, e un arcivescovo di Capua, Marino.

L’olio del Salento illuminava l’Europa

In quegli anni il Salento era il massimo produttore di olio lampante per illuminare le lampade delle vie pubbliche, delle case borghesi e delle regge nobiliari del Nord Europa. E il porto di Gallipoli era il punto di partenza di questo fiorente commercio. Inoltre, i sottoprodotti della torchiatura nei frantoi salentini servivano per la produzione del celebre sapone di Marsiglia. Grazie alla sua purezza, poi, l’olio di questo territorio era l’unico selezionato per bruciare, insieme all’incenso, di fronte alle splendenti icone nelle chiese ortodosse di Mosca.

In quel tempo, insomma, l’olio del Salento era il migliore del Mediterraneo, il più ambito, il suo prezzo si batteva da Napoli a Londra, come se nei tempi attuali fosse stato quotato in borsa. Il commercio img_8227dell’olio lampante diede a Gallipoli un rilievo internazionale. Le navi che caricavano olio portavano in città ogni tipo di merce e collegavano la Puglia con Inghilterra, Francia, Germania, Venezia e Trieste. La penetrazione maggiore fu degli inglesi perché il commercio dell’olio lampante era controllato da Londra, che proprio a Gallipoli aveva un viceconsole. Non è un caso, dunque, che nel Salento vivano ancora oggi i discendenti di numerose famiglie dai nomi britannici, ormai salentini acquisiti da secoli.

La città di Gallipoli e le campagne circostanti erano piene di frantoi ipogei dove si svolgeva la lavorazione delle olive. Nel centro storico c’erano una trentina di frantoi, spesso allocati nei sotterranei dei palazzi nobiliari. Nelle campagne, ogni masseria aveva il suo frantoio. Il segreto della qualità di quell’olio, oltre che dalla qualità delle piante, dipendeva dalla conservazione del prodotto in questi ipogei, fatti di una pietra eccezionale, il carparo, che lo filtrava donandogli quella speciale purezza.

Vita di frantoio

Il Salento è pieno di questi ipogei”, ci spiega Mimmo Cataldi, il responsabile marketing della img_8210Masseria L’Astore, guidandoci alla scoperta di un luogo incantato, dall’architettura imponente, dove si respira il fascino della storia. “Le olive venivano prelevate dall’alto e versate nelle vasche di molitura – continua Cataldi – con macine trascinate da buoi bendati. La pasta di olive veniva spalmata sui dischi di giunco intervallati. In ogni nicchia un torchio spremeva la pila di dischi e separava le parti solide da quella liquida. L’olio saliva per affioramento e a quel punto un frantoiano separava l’olio dall’acqua. Poi l’olio veniva stoccato nelle vasche di pietra”.

Il frantoio era un sistema complesso che lavorava sei mesi l’anno: vi erano anche le stalle dei buoi e dei cavalli, le condizioni lavorative erano molto dure, uomini e animali vivevano in promiscuità. Sottoterra si svolgevano tutte le attività della giornata, tanto che sulle pareti è possibile trovare i fregi che servivano come registro.

La ‘cattedrale’ del vino

A fine ’800 il frantoio viene abbandonato. Sarà recuperato soltanto negli anni ’90. La famiglia Benagiamo acquista la masseria nel 1935. Achille è un chirurgo, primario dell’ospedale di Casarano, con la passione per la terra e per i suoi prodotti: il vino e l’olio, prima di tutto. Dopo la sua scomparsa – racconta Cataldi – sono i figli Luca, Paolo e Stefano a guidare l’azienda. Il frantoio è diventato una location per eventi, matrimoni concerti jazz, eventi aziendali. Gode infatti di una acustica fantastica grazie alla volta che ne fa un esempio eccelso di architettura rurale. La Masseria ospita anche un B&B per le vacanze. Intorno alla struttura, si estendono 100 ettari così suddivisi: 20 per il vigneto, 60 per l’uliveto, 20 di seminativo”.

img_8219Nel sottosuolo, quasi come un naturale proseguimento del frantoio, Achille Benagiamo ha realizzato una bottaia stupefacente con tre navate a volte a stella. Una vera e propria ‘cattedrale’ del vino, realizzata con il tipico stile architettonico del territorio, utilizzando il carparo e la pietra leccese, gli stessi materiali con i quali sono stati eretti i palazzi e le chiese del Salento. In questa cantina si svolge solo la parte finale della lavorazione del vino, quella dell’affinamento nel legno e in bottiglia.

Certamente sovrabbondante rispetto alle attuali potenzialità dell’azienda, la bottaia sembra quasi l’annuncio di un progetto ancora tutto da sviluppare. E, tuttavia, è proprio da questo approccio visionario che può discendere il futuro successo del Salento.

Lavorare sulla qualità 

In fondo, la base c’è tutta. Dei vitigni importanti, a partire dal principe di queste campagne, il Negroamaro. Uve potenti che, se domate grazie alle cure dell’uomo, possono raggiungere livelli di qualità eccellenti. Deve esserne convinto anche Riccardo Cotarella, uno dei più importanti enologi italiani, che ha accettato di collaborare con i Benagiamo, raccogliendo la sfida di orientare il Negroamaro e gli altri vitigni autoctoni verso l’eccellenza. La Masseria L’Astore ha compiuto, a questo fine, delle scelte molto nette.

img_8221A partire dagli anni ’90 ha abbandonato definitivamente la tradizione vitivinicola che chiedeva di  produrre vino in cospicue quantità da vendersi ‘in cisterna’ o destinato al ‘taglio’. Dopo una onerosa preparazione del terreno con accurate analisi delle caratteristiche geologiche, scavi, frangiture e macinature, ha impiantato circa 20 ettari di vigneto delle cultivar valorizzando antichi vitigni autoctoni come il Negroamaro, l’Aglianico Ellenico tipico della Grecìa Salentina, il Primitivo, la Malvasia Bianca, il Susumaniello. Ha avviato una ricerca di varietà autoctone ormai estinte che ha portato a nuovi impianti sperimentali e a una vera e propria collezione ampelografica del Salento. Ha salvato dall’abbandono e dall’espianto i vecchi alberelli di Negroamaro. Ha coltivato la vocazione ‘rosatista’ del territorio salentino. Infine, dal 2012 produce con metodo biologico certificato, coltivando uve senza l’aiuto di sostanze chimiche di sintesi (concimi, diserbanti, anticrittogamici, insetticidi, pesticidi in genere) e sviluppando un’agricoltura pulita e sostenibile nel massimo rispetto del paesaggio. A breve la cantina sarà alimentata da energia proveniente dal sole.img_8223

I primi risultati

Il progetto che mirava alla produzione di vini di qualità avviato alla fine degli anni ’90 comincia a dare i
suoi frutti. Pur parlando di dimensioni ancora ‘artigianali’ – 70/80mila bottiglie l’anno – i primi riconoscimenti, anche a livello internazionale, cominciano ad arrivare. Noi abbiamo assaggiato (leggi le degustazioni) alcune etichette (Alberelli di Negroamaro dal 1947, L’Astore, Krita e Massaro Rosa): siamo al cospetto di vini molto interessanti, in alcuni casi ottimi. Siamo certi che di questa cantina sentiremo parlare sempre più spesso. L’Astore ha ormai spiccato il volo e continuerà a volteggiare con il suo petto possente come un calice di Negroamaro.