
di Vittorio Ferla
Ho visitato le vigne di Giuseppe Russo nell’aprile scorso, pochi giorni dopo il Vinitaly. Ed è stata una esperienza importante, sotto il profilo umano prima ancora che enologico. Giuseppe Russo è un uomo schivo e di poche parole. Realizza dei vini di grande impatto che fanno della sua cantina una delle migliori dell’Etna. Ciononostante conserva umiltà e concretezza straordinarie.
Tutto comincia da Girolamo
L’incontro parte dalla sua abitazione, dove c’è anche la cantina. “Una cantina semplice e spartana molto vicina alla piccola stazione del paese – spiega –che serviva a mio padre Girolamo per conservare e caricare il vino sfuso che vendeva al porto di Riposto”. Da qui partiamo con la sua utilitaria per fare un giro delle vigne ereditate dai genitori. Senza alcuna preparazione.
“Mio padre muore d’infarto nel 2003. Non sapevo se vendere le terre o no. Fino a quel momento non avevo idea del lavoro in vigna. Non era nei miei programmi. Ho studiato per anni pianoforte e mi sono diplomato. Sono laureato in Lettere e, a quel tempo facevo supplenze. Sull’Etna erano già arrivati Cornelissen, Franchetti e De Grazia e si respirava qualcosa di nuovo. Passopisciaro è diventato il centro della rinascita dell’Etna. Così ho deciso di non vendere. Ma all’inizio non sapevo come avrei dovuto fare. Ero un dilettante, ma avevo qualcosa di interessante tra le mani. Ho cominciato con le microvinificazioni. Ho impostato subito l’azienda sui cru. E adesso eccomi qui”. Letterato e musicista, insomma. Gli chiedo se questi studi abbiano influito in qualche modo sul suo modo di fare il vino. “Penso di sì. Mi danno una marcia in più per fare i vini che faccio. Diversamente, non avrei quella sensibilità culturale e umana che si ritrova nella mia produzione”.
Arte e concretezza per raggiungere l’eccellenza
I vini della cantina Girolamo Russo sono considerati da tutti eccellenti. È come se le asperità del territorio lavico siano state tradotte abilmente, nelle mani di Giuseppe, in una partitura musicale, in un concerto di grazia e di equilibrio che ha qualcosa di artistico. L’uomo, però, è tutt’altro che lezioso, sempre agitato da urgenze concrete. Come la lotta ai parassiti. Rigorosamente biologica. “Dobbiamo fare molta attenzione alla tignola, una farfalla che attacca le nostre viti – mi spiega durante il giro in macchina. Le larve possono colpire i fiori e gli acini. Effettuiamo la lotta guidata con il Bacillus thuringiensis, un insetticida biologico che mangia le uova e che va distribuito prima che le larve si formino ed entrino negli acini”.
Attraversiamo, dunque, le vigne di Nerello Mascalese, in buona parte molto antiche: alcune superano i 100 anni. Le loro radici affondano in un terreno unico al mondo: ogni sciara (così i siciliani chiamano la vecchia lava, secondo l’etimo arabo) contiene una diversità di componenti minerali che poi viene restituita nei vini.
A spasso per le vigne di Nerello Mascalese
Subito nelle vicinanze di Passopisciaro, c’è Feudo di Mezzo, 675 metri s.l.m. Un ettaro appena che si estende su un ampio ripiano interposto tra due colate laviche che disegnano una terra aspra e irregolare. Qui si trovano alberelli etnei vecchi di 100 anni. “Ma io non sono un ‘alberellista’ – ci tiene a chiarire, distinguendosi dalla viticoltura etnea tradizionale – ho scelto l’allevamento a guyot per le vecchie vigne di 60-80 anni perché permette maggiore controllo, per le vigne più giovani il cordone speronato”. La questione del controllo è molto importante per chi usa metodi biologici. “I giorni al Vinitaly – dice – mi hanno tolto molto tempo. Adesso c’è tanto lavoro arretrato, approfitterò di questo giro per verificare un po’ la situazione. D’altra parte, andare a Vinitaly è anche una forma di rispetto per i nostri clienti che vengono da tutto il mondo”.
Un’altra vigna, più ampia, sta a Feudo, una contrada nel territorio di Randazzo, 640 metri s.l.m. In tutto 6 ettari, un suolo profondo e generoso. C’è ancora un noccioleto che sarà estirpato per far posto ad altre viti. E c’è anche un casale di famiglia in ristrutturazione che mi mostra. “Nella casa si conservano delle colonne di pietra lavica: sono un unicum dal punto di vista architettonico, difficile trovarne simili”. Il casale diventerà uno spazio caratteristico per l’accoglienza dei visitatori e dei clienti e per le degustazioni. Ed è proprio pensando ai clienti che stanno per arrivare che Giuseppe si lascia prendere da una pianta di finocchietto selvatico: “C’è una esplosione fantastica di vegetazione, lo prenderò per preparare la pasta con le sarde per gli ospiti californiani”.
Infine, la vigna di San Lorenzo, 750 metri s.l.m., sita sulla parte sinistra della strada provinciale in direzione di Randazzo (sì, è tale la diversità dei terreni sull’Etna che conta anche questo…). Adagiati sulle pendici basso-montane del vulcano, questi vigneti crescono su colate laviche non molto antiche, che hanno formato suoli giovani e porosi, ricchi di spigolose pietre vulcaniche che garantiscono un ottimo drenaggio e che lasciano spazio a qualche affioramento della roccia madre. “Come si vede, nei piani alti di San Lorenzo lasciamo crescere l’erba tra le viti. Ho realizzato qui quella che Salvo Foti, enologo e produttore, chiama alberello modificato a spalliera”.
Un bianco di nome Nerina
Da queste terre vengono gli attuali tre cru, tutti rossi. “Non ho mai fatto il cru nella contrada di Calderara, ma lo farò dopo aver estirpato il cacheto”, mi annuncia. E i bianchi? “L’azienda è impostata sui vini rossi che provengono dalle vigne vecchie tipiche di queste contrade a nord dell’Etna. La mia storia è questa. Però mia mamma voleva il bianco. E così abbiamo fatto anche quello. Ma per fare Etna Bianco doc devo comprare l’uva da conferitori. Anche perché il Carricante è allevato soprattutto nella parte est del vulcano. Però è venuto bene e l’abbiamo imbottigliato. Si chiama Nerina come mia madre. E diventa un gioco chiamare così un bianco”.
Oggi, a 13 anni dalla scomparsa del padre Girolamo che continua a vivere nel nome dell’azienda, questo siciliano discreto che quasi sembra sussurrare alle vigne è diventato uno dei viticultori etnei più apprezzati. Alessio Planeta, produttore della famosa industria vitivinicola siciliana, sbarcata sull’Etna nel 2012, ha detto di lui: “Giuseppe è il leader di quest’area. Ha l’approccio giusto. È come un poeta”. Apprezzamenti del genere non sono comuni, specie se fatti da un concorrente. Non è un caso, dunque, se una eco di questo lavoro si sia diffusa nel mondo e che già nel 2011 Wine Spectator abbia premiato ben tre rossi della Girolamo Russo: i cru di Feudo e Feudo di Mezzo e il blend Rina (che in dialetto significa sabbia, esplicito riferimento alla sabbia nera del vulcano). “Vendo il 70% della produzione all’estero: USA in primis, poi i paesi scandinavi, Francia, Belgio, Olanda, Giappone, Singapore, Australia, Nuova Zelanda, Russia, Ucraina. Il 30% in Italia: specialmente in Sicilia, ma anche a Milano, Roma, Firenze, Bari”.
Il vino sull’Etna: come una musica
L’azienda Girolamo Russo produce 70 mila bottiglie, tutti rossi tranne un bianco e un rosato. Si potrebbe dire che Giuseppe Russo abbia imparato e miscelato tre diverse lezioni dai ‘pionieri’ dell’Etna. Dal vignaiolo radicale Frank Cornelissen la pazienza nell’attesa per la raccolta del frutto maturo. Dall’italoamericano Marco de Grazia di Tenuta delle Terre Nere l’idea di investire sui cru. Dal barone romano Andrea Franchetti della cantina Passopisciaro l’intuizione che il Nerello Mascalese può produrre vini concentratissimi con tannini evoluti.
Di fronte alla potenza del vulcano e del Nerello, piuttosto che imporre uno stile, Giuseppe sembra muoversi con la delicatezza del pianista che interpreta una partitura. Assaggiare i suoi vini è un’esperienza suggestiva: qui potrete leggere le nostre degustazioni. Ogni volta sembra di cogliere l’eleganza, la finezza e la complessità che a quei vini deriva dalle terre da cui provengono. Nel dubbio tra l’aver perso un musicista e l’aver guadagnato un vignaiolo, la soluzione è semplice: in questa cantina si fa un vino che sembra musica.