Cronaca di un viaggio nelle terre del Negroamaro

di Ilaria Donatio

 

Quante regioni esistono in Puglia? E quante vegetazioni, microclimi, tradizioni? Nei 400 chilometri di terra che si distendono tra Adriatico e Jonio,  tutto parla due lingue: quella della terra e quella del mare. 

Il mare visto dal molo di Otranto

Raffaele Nigro – giornalista e scrittore, lucano d’origine e pugliese di adozione – scrive: “La Puglia è un continente” che diventa “friabile e aspro” nel Salento.

“Friabile e aspro” per definire questo pezzo di Italia – il più a Est di tutti – è bellissimo.  Friabile per

la sua pietra leccese – calcarea, facile da lavorare – e bianchissima. E aspro per la natura rigogliosa, la macchia mediterranea e, ovunque, i filari di viti, gli ulivi secolari e i fichi d’india, oltre alla cornice dei cespugli di capperi.

 

 

Negroamaro Wine Tour

E allora benvenuti nel regno incontrastato del Negroamaro – l’uva usata  per produrre il Salice Salentino Doc (ma anche il Copertino Doc e il Galatina Doc) – una delle denominazioni pugliesi più conosciute al mondo.

Un regno che, con gli amici del tour operator  Salento Wine Tours, abbiamo attraversato per tre giorni in compagnia di un bel gruppo di giornalisti, blogger e fotoreporter.

La cornice è stata quella di “Oltre la vite: rassegna culturale ed enogastronomica che ha avuto come “base” un piccolo paese in provincia di Lecce, Campi Salentina, realizzata dall’assessorato alle Attività produttive, dalla fondazione “Città del libro” e dall’associazione “Le Corti raccontano”.

con Fabiola Pulieri di cronachedigusto.it

“Un progetto integrato di arte, turismo ed enogastronomia”, come lo definisce Francesco Cantoro di  Salento Wine Tours, tornato insieme ad Angela Rampino – partner nella vita e nell’impresa – da Londra nel suo Salento, proprio con l’idea di mettere insieme tutte le caratteristiche di questo territorio, in un unico “pacchetto” da offrire ai turisti di tutto il mondo.

“Oggi il turista non viene più in Salento solo per il mare”, ha sottolineato durante il convegno di apertura della tre giorni, “Il turismo enogastronomico come volano di sviluppo economico per il Salento”, Cosimo Durante che del Gal Terra d’Arneo è presidente, “ma anche per la nostra storia, la specificità culturale e – sempre di più – l’enogastronomia”.

I numeri lo confermerebbero.

Secondo Dario Stefano, senatore salentino molto attivo in ambito agroalimentare ed enoturistico, “in Puglia oggi il 17% dei turisti è motivato dalla enogastronomia e il 58% di questi va via con l’idea di ritornare. Vuol dire che siamo sulla strada giusta”.

 

Leone de Castris: tre secoli di storia

La visita alla storica cantina Leone de Castris, nel Comune di Salice Salentino, quadrante Nord-Ovest della penisola Salentina, è
un viaggio lungo tre secoli. 

Un viaggio che Serena Guida – Marketing e Comunicazione Leone de Castris –  ci racconta molto bene e che inizia nel lontano 1665, anno di nascita della cantina, attraversa l’Ottocento – quando l’azienda vitivinicola inizia ad esportare vino sfuso negli Stati Uniti, in Germania e in Francia – e prende slancio con il primo imbottigliamento, nel 1925, con Piero e Lisetta Leone de Castris.

Nel 1943 nasce il Five Roses, vino simbolo dell’azienda e primo vino rosato ad essere imbottigliato e commercializzato in Italia e da subito esportato negli Stati Uniti. “Cinque Rose” come i cinque figli che per intere generazioni i Leone de Castris hanno avuto: nome che diventa “Five Roses” per il generale Charles Poletti – commissario per gli approvvigionamenti delle forze alleate – che chiese una grossa fornitura di vino rosato, le cui uve provenivano proprio dal feudo Cinque Rose. Il generale voleva un vino dal nome americano, e non ci si mise molto a trovarlo: nasce così il “Five Roses”. Con la vendemmia del 1954 nasce il Salice Leone de Castris e grazie alla commercializzazione in Italia ed all’estero per circa 20 anni si ottiene la Doc Salice Salentino nei primi anni ’70.

 

A guidare l’azienda oggi è Piernicola, figlio di Salvatore Leone de Castris e nipote di Piero e Lisetta. Ed è proprio lui, nel 2009, a inaugurare il Museo del Vino Leone de Castris e a dedicarlo al nonno e al papà.

La struttura – che si estende su una superficie di circa 600 mq – propone ai suoi visitatori un bel percorso storico-culturale incentrato sulle tappe fondamentali della storia della cantina pugliese, e lo fa attraverso foto, vecchie bottiglie e attrezzi agricoli d’epoca si ripercorrono i tre secoli di storia aziendale.

 

Dopo il Museo del Vino, è la volta del Wine Hotel “Villa Donna Lisa, nuovissima struttura attigua alla cantina: bel concept con ognuna delle 24 camere legata alla storia delle etichette dell’azienda. 

Qui, abbiamo pranzato al ristorante Milò, dove – a futura memoria – resteranno impressi questi gustosi (oltre che bellissimi) troccoli alla crema di cime di rapa, stracciatella e gamberi e un memorabile Salice Salentino Doc Riserva, blend di Negroamaro e Malvasia Nera.

 

 

Al “Folie” lo chef Antonio Raffaele fa follie

È vero: il regno de “lu ientu, lu sule e lu mare – ma in alcuni giorni soprattutto del vento! – è diventato un vero e proprio brand.

E, per ogni marchio che si rispetti, esistono cucine che tolgono – che vanno, dunque, per sottrazione – cucine che lasciano i prodotti del territorio come unici e preziosi protagonisti, lavorando sugli abbinamenti e, ancora, cucine che interpretano e “allargano” il campo.

 

 

 

Antonio Raffaele è chef al Folie: ristorantino gourmet, dotato di una cantina sotterranea, scavata nel tufo e ricavata da un ex-rifugio della seconda guerra mondiale. Alle pareti il meglio dei vini regionali e italiani, con un occhio di riguardo per le etichette francesi. Siamo al Verdalialocation molto suggestiva, ricavata da una ex-cava, in quel di Villa Convento, posto – sconosciuto ai più – attaccato a Lecce: se venite qui, scordatevi la tradizione e preparatevi alle sorprese.

Perché, Antonio Raffaele è un personaggio che, di certo, non annoia.

Al Folie troverete sì piatti che partono da un prodotto o un ingrediente tradizionale ma faticherete a riconoscerli perché “riletti” in una chiave che potremmo definire “estetica”, con una forte influenza internazionale (in particolare di quella francese).

 

Come il piatto “icona” del Folie: la frisella. Che ovviamente della frisella salentina non ha nulla. Amante – oserei dire “ultras”  – della moda, appassionato dello stile di Versace (calabrese come lui) e del suo “barocchismo” (siamo pur sempre a Lecce che qualcuno ha definito la “Firenze del Sud), Antonio Raffaele è stato insuperabile nella piccola pasticceria

ph. credits @rosana_mcphee

che ci ha deliziato oltre ogni dire. Merita una menzione speciale un Salento Rosso speciale, il Metiusco dell’azienda Palamà (GnamGlam lo ha raccontato qui).

 

 

 

 

 

Ancora più a Sud: Masseria L’Astore e Cantine Menhir

 

Quasi alla punta del tacco, siamo in visita alla Masseria “L’Astore” che i lettori di GnamGlam già conoscono bene (ne abbiamo scritto qui) – circondata da 100 ettari di vigneti e uliveti, sorge a Cutrofiano, nel cuore della provincia di Lecce, a metà strada tra Gallipoli e Otranto.

Qui – dopo la visita al frantoio ipogeo del ‘600, dove un tempo si svolgeva la lavorazione delle olive: un luogo incantato, dall’architettura imponente, dove si respira il fascino della storia – abbiamo degustato insieme a Paolo Benegiamo, il produttore, una selezione di vini dell’azienda, tra cui il famoso e premiato Negroamaro in purezza – 15 gradi alcolici, proveniente da un vigneto di 4 ettari a San Pietro in Lama – “Alberelli”.

 

Ed eccoci a Minervino di Lecce, un paesello di neppure quattromila abitanti 

che sembra scolpito nella pietra leccese, dalle belle corti e le stupende chiese rinascimentali. 

Al centro del paese, la famiglia Marangelli ha dato vita alle Cantine Menhir Salento, il cui fondatore è Gaetano.

 

Il nome della cantina viene dai reperti archeologici, “Dolmen”e “Menhir”, di cui questo territorio – terra rossa e ulivi maestosi – è ricco (proprio a Minervino c’è il più bel dolmen della provincia di Lecce, “Li Scusi”).

Entriamo in un palazzotto del ‘700, con un giardino che nei mesi estivi diventa un bellissimo dehors.

Qui c’è prima una fornitissima bottega di prodotti tipici di gamma alta (conserve, marmellate, biscotti, pasta e olio), poi l’enoteca aziendale. Infine, l’osteria “Origano” affidata a Vito Gaballo, 29 anni. Cucina di territorio, prodotti semplici, materie prime di qualità. 

Questo ragazzo sorridente e un po’ timido dimostra una tecnica sapiente e una grande conoscenza dei prodotti che tratta  con gusto e leggerezza. In una parola, una cucina quasi didattica, da far conoscere assolutamente a chi – in pochi, oramai – è ancora digiuno del Salento e delle sue bontà.

 

Studi ad Alma con Marchesi e pratica con Mattias Peri al Mattias di Livigno, con Andrea Berton al Trussardi alla Scala di Milano, con Niko Romito al Reale di Castel di Sangro, Vito Gaballo ci racconta i suoi piatti come fossero pietanze ordinarie, per tutti i giorni. Magari le stesse che lui, da bambino, ha imparato a cucinare a casa della nonna. E che oggi, da chef, non ha mai dimenticato.

Chiude il cerchio, la giovane e brava sommelier Sara Melis

 

Burratina con polvere di pomodoro e olive, su crema di pomodoro

Polpo scottato su crema di patate con paprika con cialdine di riso al basilico

“Ruote pazze” al pesto di melanzane e pomodorini confit

Risotto al Negroamaro, pesche e stracciatella

Baccalà cotto a 40 gradi con estratto di peperoni su letto di verdurine

Pancetta (cotta a bassa temperatura per 12 ore) con salsa barbecue e cipollotti

 

 

 

Sfera al latte di mandorla e caffè, con cialda al caramello, spugna all’alloro e polvere di cioccolato bianco

 

 

“L’Orecchietta”: un’istituzione a Guagnano

C’è orecchietta e “L’Orecchietta”. La prima è la tipica pasta salentina, ormai esportata per tutto lo Stivale, lavorata in casa. E “L’orecchietta“, la gastronomia-laboratorio più famosa e frequentata del Nord Salento, prende proprio il nome dalle “piccole orecchie” di pasta fresca che le dita veloci delle nonne salentine realizzano sui propri tavoli di marmo.

Lampadario “capolavoro” realizzato da Massimo Maci

L’Orecchietta è un laboratorio di pasta – dove i colleghi stranieri  hanno imparato come si fa la pasta –

poi è una gastronomia d’eccellenza che ripropone le ricette salentine così come si facevano una volta.

Se andate, dovrete sì munirvi di un po’ di pazienza (c’è sempre la fila) ma certi che sarà ampiamente ripagata quando assaggerete la pizza con le verdure, le pittule con le olive, oppure piatti più “hard” come i pezzetti di cavallo, le orecchiette con le rape, i ciceri e tria.

L’Orecchietta è la famiglia Rosato: Antonio Rosato e Lisetta Scarciglia. E i figli Simona e Mino. Tutti sorridenti: non del genere “un sorriso per la stampa”, piuttosto del 

genere “Salento e son contento” (ashtag molto in voga da queste parti). Ed è Lisetta a raccontare: “Ho iniziato a trasformare questa passione in una idea di impresa artigianale nel 1990, in un piccolo laboratorio con un tavolino, un ferretto e tanta dedizione. L’idea era quella di preservare isaperi ed i sapori tipici di una tradizione che rischiava di andare perduta con i cambiamenti delle abitudini e dei ritmi di lavoro delle famiglie dei giorni nostri. Speravo anche di trasmettere la mia stessa passione ai miei figli e renderli partecipi di questo sogno. Da subito, il mio piccolo laboratorio ha attirato le attenzioni di un numero sempre maggiore di turisti, curiosi e felici di scoprire questo antico mestiere e portare via, con loro, un pezzo di gustosa tradizione culinaria salentina”.

Una conclusione migliore, per questo tour salentino – concentrato in pochissimi giorni – non poteva esserci.

Lisetta e Antonio, Mino e Simona rappresentano davvero il volto migliore di questo Salento. E al tempo stesso sono un monito per tutti i salentini operosi: solo le imprese autentiche ripagano. Mentre le imitazioni – date in pasto a un turismo da cartolina – restano al chiodo.

Grazie!