
di Vittorio Ferla
Raggiungere Castello Monaci, nel Salento, significa fare un viaggio in un’altra dimensione di spazio e di tempo. Le pianure che non finiscono mai. I campi ordinati di ulivi e vigneti. I paesi tranquilli di pietra bianca. Tutto sembra oltremodo dilatato e sereno. Non c’è spazio per la fretta tipica della vita urbana.
E poi, alla fine di questa lenta e piana prospettiva, il Castello e le cantine dell’azienda di famiglia si impongono come gli unici ‘rilievi’ di questa terra.
Un rifugio per i monaci basiliani
I Monaci Basiliani che arrivarono qui secoli fa avevano origini egiziane, palestinesi, siriane e turche. Abitavano regioni desertiche del mediterraneo orientale e vivevano in grotte e anfratti naturali. Quando giunsero in queste pianure, a seguito della lotta iconoclasta e delle persecuzioni avviate dall’imperatore bizantino di Costantinopoli Leone III, trovarono caratteristiche morfologiche e naturali simili a quelle che avevano lasciato: un terreno caldo e chiaro fatto di grotte, gravine, formazioni carsiche, che si prestava ad essere facilmente scavato. I primi rifugi erano infatti piccole grotte scavate nella roccia friabile con l’ingresso dall’alto attraverso un buco; all’interno c’era il giaciglio, per riposare, e la cripta, generalmente con la parete affrescata e destinata alla celebrazione della messa.
La storia di Castello Monaci comincia da questo momento. Quando terminano le persecuzioni, i monaci iniziano a costruire chiese e monasteri che diventano in poco tempo importanti centri culturali e sociali. Si dedicano all’istruzione della popolazione, dissodano i terreni, rendono fertili le zone paludose, danno impulso all’agricoltura. Si deve a loro il successo della coltivazione dell’olivo in queste pianure: grazie alla loro opera l’agricoltura progredì notevolmente.
Uno spicchio di Borgogna in Puglia
L’origine di questo edificio, che ha subito diversi rimaneggiamenti, risale alla prima metà del XVI secolo, come risulta dal Catasto Onciario di Salice Salentino del 1749. “Abbiamo notizie del Castello che risalgono alla fine del ‘400. Ancora oggi sono visionabili i manoscritti dei monaci basiliani. Non è facile stabilire esattamente il momento storico in cui per il Castello ebbe termine la fase monastica ed ebbe inizio quella feudale”.
Luigi Seracca Guerrieri è l’ultimo erede di una tradizione familiare di enologi e viticultori che si tramanda da anni. Laureato in Giurisprudenza a Milano, ha studiato enologia in Francia e ha approfondito il marketing del settore. Ci accompagna nella storia di questa impresa e della sua famiglia.
“Sappiamo – spiega – che gli ultimi feudatari furono francesi: i Parry Graniger erano nobili di Francia che avevano parenti a Ugento. In cerca di terreno da queste parti acquistano il Castello e decidono di piantare la vite, portando i vitigni di Borgogna. Progressivamente trasformano l’edificio in cantina, che in francese si dice Chateaux. Come si vede anche dalle illustrazioni del tempo, da un parte, a destra, piantano lo Chardonnay, a sinistra, il Pinot Noir”.
In genere, lo Chardonnay è in grado di produrre delle performance generose, è più facile a farsi, tanto che può riuscire a consegnare buoni vini anche nei climi molto caldi, come in Puglia o in Sicilia. Il Pinot Noir è invece delicato, con buccia sottile, si acclimata al meglio con temperature che scivolano verso il freddo: ha una propensione naturale a risvegliarsi presto, ma non così presto da prendersi le gelate primaverili, e gradisce un andamento climatico temperato tra aprile e settembre, quindi gli eccessi in più o in meno non sono graditi.
Salento: una storia di viticultori
“Il Pinot Noir non dava buoni risultati. Qui era troppo caldo. Troppe spese per una qualità scadente. I
francesi decidono di vendere la tenuta. La compra nel 1905 il mio bisnonno, padre di mia nonna, Antonio Provenzano, che era un enologo ed era originario di Ugento. Parliamo di 400 ettari, 20 dei quali coltivati a vigneto.
Il nome francese, Chateaux Les Moines, viene tradotto in Castello Monaci. Nel 1912 toglie il Pinot nero e pianta i vitigni autoctoni: Primitivo, Negramaro, Moscato”.
Siamo ancora nell’infanzia del vino di Puglia. “In quegli anni la Puglia – spiega Luigi Seracca Guerrieri – produceva soprattutto per gli altri. Il nostro era ancora un vino da taglio, almeno fino agli anni ’50. Intanto, già nel 1920 i Provenzano costruiscono una seconda cantina con cisterne in cemento capaci di contenere 22mila ettolitri e che oggi è diventata un museo del vino dedicata a mio nonno”.
Il museo – che abbiamo visitato – è assai suggestivo. Ospita una serie di utensili e attrezzi provenienti dalla tenuta agricola che aiutano a immaginare le usanze della vita domestica nella tipica casa contadina del Salento e il lavoro nei campi dai primi del ‘900. Il percorso didattico conduce i visitatori lungo il cammino della vite dal Caucaso al Mediterraneo con un focus sui vitigni autoctoni e il ‘vino da taglio’ prima della ribalta sui mercati internazionali.
I reperti sono supportati da pannelli illustrati che documentano le parole del vino nei dialetti salentini nonché l’evoluzione dei recipienti del bere.
L’azienda entra nella ‘maturità’
“Il 1928 – spiega Seracca Guerrieri – è l’anno del primo imbottigliamento che sarà realizzato in questa cantina fino al 1970. La produzione è di appena 5mila bottiglie l’anno, molte delle quali dedicate ad amici e parenti. Si utilizzavano le vasche di cemento che è davvero un bel materiale per la conservazione del vino. Negli anni ’60 cominciano ad arrivare i primi premi come il famoso Douja d’Or di Asti. L’etichetta rappresenta il vecchio castello con i due antichi vigneti simmetrici di Chardonnay e Pinot noir. Mio nonno firmò la capsula come facevano in Borgogna: nessuno allora lo faceva”.
Cominciano tempi nuovi: “Negli anni ’70 comincia la costruzione della nuova cantina. L’idea del nonno era quella di fare enoturismo, anche se allora, ovviamente, non si chiamava così. Il progetto era lungimirante… forse troppo. E non ebbe un grande successo”.
La nostra visita si svolge proprio in questa cantina degli anni ’70. Una hall imponente che ospita una selezione di prodotti della casa. Ben 28 stanze che nel progetto originario dovevano essere dedicate all’ospitalità e che oggi ospitano gli uffici dell’azienda. Alcuni spazi esterni che saranno chiusi per realizzare camere per ospiti speciali e importatori. Al piano inferiore, sotto il livello del suolo, una cantina di grandissimo impatto scenografico scavata nel tufo, isolante termico naturale, ospita la barricaia, nella quale si trovano oltre mille barrique e 18 botti di rovere francese.
Grande qualità del legno, ma usato con parsimonia per rispettare i caratteri originari dell’uva. Quest’area dedicata all’invecchiamento ben si coniuga con le più moderne tecnologie di vinificazione di cui nel 1999 è stato dotato Castello Monaci grazie alla joint venture con Gruppo Italiano Vini, che ha messo a disposizione le capacità tecniche del gruppo vitivinicolo nato nel 1986.
Tre linee di successo per un futuro di qualità
In anni recenti, l’azienda riunisce i possedimenti della madre di Luigi (la quale eredita la tenuta con gli edifici e le terre della famiglia Provenzano) e del padre Vitantonio, anche viticultore e proprietario terriero. Centrali per l’azienda sono i vigneti a bacca rossa tipici di queste terre: Primitivo, Negroamaro e Malvasia nera. La zona di Salice Salentino è caratterizzata da terreni calcarei e argillosi, ricchi di scheletro, dalla roccia porosa e friabile e dunque ricca di acqua. Da qui vengono vini importanti, molto carichi di colore e di estratto, voluminosi e rotondi in bocca, capaci di raggiungere dei bei vertici di eleganza.
Il papà di Luigi ha anche 60 ettari a Brindisi, vicino al mare, caratterizzati da terreni sabbiosi che hanno molta poca struttura: un luogo ideale per allevare Chardonnay, Fiano e Verdeca.“I vini che vengono da qui – spiega Luigi Seracca Guerrieri – hanno un bel naso, piacevolezza acida, profumi floreali e fruttati, grande pulizia e facilità di beva. Le foglie restano sulla pianta per proteggere dall’impatto del sole che altrimenti provocherebbe una rapida disidratazione con il rischio di creare muffe. La brezza continua, poi, pulisce la pianta e mantiene la freschezza. Il risultato è un vino di buona acidità, di tono alcolico non eccessivo, che non rischiano il sapore di cotto”.
Superata la boa degli anni ’90, grazie anche all’accordo con il Gruppo Italiano Vini, l’azienda cresce moltissimo, sia per qualità che per quantità di prodotto. Esprime una linea più commerciale rivolta alla grande distribuzione ed una di elevatissima qualità rivolta ad un mercato più selezionato. Di recente, in accordo con le coop è stato avviato un progetto di vini ad alta sostenibilità: è nata così la linea Mirus, con un protocollo specifico che riguarda l’uso di benzina, acqua ed energia. L’azienda ha un impianto fotovoltaico che produce il 30% dell’energia necessaria.
“Buona parte della produzione – spiega Luigi – è rivolta all’estero: in Francia vanno molto bene i rossi, il
Primitivo funziona in Germania e Svizzera, gli Usa sono un mercato difficile ma serio. Il Salento gode oggi di grande fortuna turistica, ma dal punto di vista vitivinicolo il brand è la Puglia. C’è ancora molta confusione su questi vini. Sul Primitivo pesa ancora l’idea di un vino pesante, alcolico, rustico: nonostante risultati importanti per la qualità, ancora oggi funziona soprattutto in quei mercati che mostrano un primo approccio al vino come la Germania, la Svizzera, la Cina e la Russia. Il Negroamaro ha raggiunto una bella notorietà in Italia – grazie anche, ammettiamolo, al successo del gruppo musicale – ma soddisfa un mercato più sofisticato”.
Una storia che parte da lontano e consegna al presente vini ricchi e di grande varietà: li abbiamo provati per voi. Iniziando da una Verdeca, Petraluce 2014 (qui potrete leggerne la recensione) e da un Primitivo, il Pìluna (qui lo raccontiamo), proseguendo poi con un Negroamaro arricchito da una Malvasia nera (leggete!), per finire con il rosato Kreos.