Casale del Giglio: il coraggio di sperimentare in una terra vergine

di Vittorio Ferla

Non bisogna temere di scriverlo. Probabilmente, Casale del Giglio è, oggi, l’etichetta più nota del Lazio. Certamente, è la più venduta nei confini della Regione. Tuttavia, non particolarmente vezzeggiata dalla critica enogastronomica.

Agro Pontino: un tempo qui era palude

Per capirci un po’ di più, poco tempo dopo aver degustato (e molto apprezzato) il Viognier prodotto da Casale del Giglio, abbiamo pensato di visitare l’azienda che si trova in provincia di Latina, nel cuore di quell’Agro Pontino che, fino agli anni ’30 del ’900, era una zona caratterizzata da paludi, acquitrini e infestata dalla malaria.casale g

Com’è noto, lo Stato fascista investì su questo territorio, incaricando l’Opera nazionale per i Combattenti di portare a compimento una importante bonifica che trasformò una zona paludosa in territorio di grandi potenzialità produttive. Tra gli altri frutti dell’impresa di quegli anni c’è anche la città di Littoria: nata nel 1932, cambierà il nome in Latina nel 1946, alla fine della guerra.

Come si può leggere nei documenti del tempo, la bonifica produsse interventi profondi: “diboscamento, sterpatura e dicioccatura di oltre 6.000 ettari di terreni boschivi; dissodamento dei terreni incolti; sistemazione idraulica dei terreni paludosi; costruzione di case coloniche e poderi di estensione variabile; costruzione di una rete di strade e di canali”.

Una storia nel commercio del vino

Ora, si capisce bene che in un posto del genere non vi erano tradizioni agricole significative, men che meno vitivinicole. “La mia famiglia è originaria di Amatrice ed è legata al vino ormai da 100 anni”, ci casaleGiglioracconta Antonio Santarelli, proprietario e manager dell’azienda. Era, però, una famiglia di commercianti. Il capostipite è Berardino.

I tre figli – tra cui Emidio, il nonno – acquistano a Roma dei punti vendita – una dozzina in tutto – a partire da quello storico di Piazza Capranica, ancora di proprietà della famiglia. Queste enoteche sono state progressivamente cedute perché i figli hanno scelto le professioni e non si poteva gestire tutto. Bisogna ricordare, infatti, che a quel tempo i vinai e i carbonai erano agli ultimi posti della scala sociale. Un mestiere umile”.

La scoperta delle Ferriere

Ciò nonostante, Dino Santarelli, figlio di Emidio, continua e sviluppa la storia della famiglia, cominciando negli anni ’50 l’imbottigliamento e la commercializzazione dei vini del Lazio.

“Mio padre – spiega Antonio – veniva qui a Le Ferriere a pescare nei canali. Appena dopo la bonifica, questa era una zona selvaggia, un territorio da marziani. Decise di comprare qui dei terreni da un amico. Erano a coltura mista: allevamento di bestiame e ortofrutta, ma lui riconvertì tutto a vigneto”. Ci mostra il vecchio casale degli anni ’30, un tempo usato per ospitare il bestiame e oggi adibito a deposito.

Negli anni ’80 viene costruita la cantina: un edificio polifunzionale, imponente e squadrato, frutto botti gigliodelle idee architettoniche di quegli anni, dove si trovano quasi senza soluzione di continuità gli uffici commerciali, l’area di accoglienza per i clienti, la sala degustazione per gli eventi, la cantina con imponenti tini di acciaio, un corridoio che ha quasi la funzione di piccolo museo del vino che ricorda le sperimentazioni effettuate in questi poderi, la barricaia al piano inferiore. Poco più in là c’è perfino una deliziosa oasi oasi-giglionaturale con un laghetto artificiale – realizzato grazie ad una sorgente trovata in azienda – dove si possono trovare cicognette, guardiabuoi, gallinelle d’acqua e cormorani. Spostandosi in macchina, poi, è possibile raggiungere un Casale elegante e accogliente, proprio quello che ispira il disegno che si trova sulle etichette delle bottiglie: qui è possibile organizzare eventi e feste, degustando i prodotti e i piatti tipici del territorio.

Una viticultura nuova

“A quel tempo – racconta Santarelli – il tendone era il metodo di allevamento più scontato: con mille piante per ettaro rappresentava un handicap per la qualità. Ho conservato giusto un fazzoletto di terra perché resti una testimonianza di archeologia agricola. Ma i filari sono molto meglio, ovviamente. Noi abbiamo infittito la bottiglie gigliodensità di piante con 5mila piante per ettaro, vicine l’una all’altra: in questo modo c’è competizione, la resa per ettaro e per ceppo è più bassa. Siamo passati da 20 kg per pianta con il tendone a 2 kg per pianta: in questo modo ricaviamo oggi una qualità di uve di gran lunga superiore. Inoltre, qui, la brezza marina soffia sempre e asciuga la vite dall’umidità che produce anche malattie. Dal tetto della cantina si riesce a vedere il Circeo. Le grandinate, per fortuna, non ci riguardano e si infrangono sui Monti Lepini”.

L’immagine del Lazio? Era pessima

“Il fatto che tutto sia vicino è un vantaggio: in 10 minuti l’uva è già in cantina – aggiunge – si evita l’ossidazione e raccogliamo gli aromi e i profumi dei vini. In cantina, così, possiamo ottenere il massimo. I praticoni dicono: ‘nun te preoccupà, il vino si aggiusta in cantina’. Ma il vino è solo una conseguenza: il vino si fa nel campo. Per ottenere questo traguardo ci voleva qualità. Noi partivamo dall’agro pontino, un territorio nuovo e inesplorato. In più, l’immagine e la storia del Lazio erano pessime a causa dell’alto livello di ignoranza dei viticultori locali. Noi abbiamo zone di altissimo potenziale qualitativo. I Castelli romani, per esempio, potevano essere una piccola Borgogna. E invece no. Il Frascati è crollato: le cantine sociali gigliosostenute dalla politica hanno rovinato la viticultura locale. Non solo: basti pensare alla speculazione edilizia in quel territorio. Non è soltanto responsabilità dei palazzinari o della politica: l’agricoltura fallimentare ha favorito la speculazione edilizia. Noi, oggi, siamo tra i primi del Lazio: piuttosto che ricreare i Castelli, abbiamo cercato una strada nostra”.

L’età della sperimentazione

Quale strada poteva scegliere Casale del Giglio in un territorio come questo delle Ferriere, in una ex palude priva di tradizione vitivinicola? Il 1985 è l’anno di svolta. Tutti i filari vengono riconvertiti e la tenuta diventa un laboratorio. “Abbiamo sperimentato. Abbiamo reagito alla bassa qualità imperante. Abbiamo provato a selezionare all’interno di ben 60 varietà alloctone quelle che meglio si adattavano al territorio. Qui non c’erano vitigni locali, ovviamente. E i vitigni internazionali davano garanzie di qualità. Non sapevamo che tipo di reazione potessero avere le varie tipologie di uve nel contesto della bonifica. Alla fine ne abbiamo selezionate una ventina”. Buona parte del merito va attribuito anche all’enologo Paolo Tiefenthaler, trentino doc, che collabora con Casale del Giglio sin dal 1988. Ecco dunque spiegato perché, nel cuore di un territorio ‘inventato’, sia possibile trovare oggi vini dai nomi esotici e improbabili: Shiraz, Viognier, Sauvignon, Tempranijo (leggi qui la degustazione del Cabernet Sauvignon). E l’elenco potrebbe continuare…

“Nella mentalità del viticultore l’etichetta della doc era tutto, ma l’etichetta non fa il contenuto. La doc è l’ultima cosa: questo approccio ha demolito la produzione laziale. Oggi il nostro mercato principale è il Lazio: i 2/3 del prodotto si vendono qui, il 20% in Italia e soltanto il 10% va all’estero. Questo succede proprio perché l’immagine del Lazio è compromessa. La nostra regione vitivinicola ci metterà 50 anni per riabilitarsi. Sogno un Lazio curato, colto, istruito, gentile”.

Per il rilancio dei vini del Lazio

I tentativi fatti finora non hanno avuto successo. Santarelli ci racconta, per esempio, della cattiva gestione quadernorealizzata in anni passati dalle precedenti giunte regionali. Oppure del tentativo fallito dell’associazione Le Vigne del Lazio di mettere insieme i produttori per promuovere meglio i vini della regione. “Il padiglione del Lazio al Vinitaly – racconta Santarelli – non è molto frequentato e rischia di diventare un ghetto: la nostra regione ha minore appeal rispetto alle altre. Io, infatti, consiglio sempre di prendere piccoli banchi in mezzo ad altri brand più noti. Noi per esempio ci siamo piazzati vicino all’Alto Adige”.

D’altra parte, con i suoi 180 ettari di vigneto e e centinaia di migliaia di bottiglie, Casale del Giglio non può nascondere delle ambizioni. “Vorremmo crescere un po’ all’estero: la penetrazione è lenta perché non abbiamo il brand vincente della Toscana o della Sicilia. Nella nostra attività di marketing diamo molta importanza al rapporto interpersonale e presentiamo i nostri prodotti in gallerie d’arte, case d’aste, case private, ambasciate: organizziamo 500 banchi di assaggio itineranti all’anno, sia in Italia che all’estero. Il contatto diretto è tutto: non vendiamo detersivi, ma vini. Questo è il nostro marchio di fabbrica, ma è complicato perché ci vogliono i sommelier”.

 

Il recupero delle tradizioni

bottiglia giglioInsomma, il vino di questa terra sembra ancora incompreso, agli albori. Eppure, a guardar bene, un po’ di tradizione si trova anche qui. “Ogni estate, a luglio, facciamo una campagna di scavi archeologici. Sotto i filari del nostro Petit Verdot, per esempio, passa la via Sacra, via di  accesso a Satrico dove c’è il tempio di Mater Matuta. Non a caso danno il nome ad alcuni nostri vini. Questo territorio è giovane per la bonifica, ma antichissimo: nelle tombe rinvenute vicino la Via Sacra sono stati trovati oggetti di ceramica tra cui contenitori di vino. Ben 2500 anni fa, c’era già un ricco commercio di prodotti della vigna”.

Ma questo non basta. Dopo anni di sperimentazioni sui vitigni internazionali, l’azienda è pronta ad una nuova sfida, quella dei vitigni autoctoni. “Intanto – spiega Santarelli – il Bellone di Anzio, una Igt realizzata tramite l’acquisto dell’uva da piccoli produttori. Nel frattempo, lo abbiamo messo a dimora anche qui, dedicandogli 20 ettari. Per il futuro vogliamo puntare sul Cesanese del Piglio e sul Pecorino, vitigno al quale siamo legati perché proviene dalla terra di origine della nostra famiglia, cioè quella parte di Lazio intorno ad Amatrice che oggi fa parte della provincia di Rieti, ma un tempo era parte de L’Aquila”.

La riscoperta della Biancolella: una nuova sfida

Intanto, i primi riconoscimenti di questa new wave sono già arrivati. L’anno scorso, infatti, la Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso ha assegnato i Tre Bicchieri a un vino esordiente di Casale del Giglio: il Faro della Guardia, vino realizzato con l’uva Biancolella dell’isola di Ponza.

L’azienda di Santarelli sta sviluppando sull’isola l’ennesimo esperimento. La Biancolella è una varietà originaria di Ischia – che per la sua forte vena acida ricorda non a caso il Greco di Tufo – importata nella metà del ‘700 dai primi coloni, ai tempi del Regno di Napoli sotto i Borbone. I vitigni sono posizionati lungo un piccolo altipiano, detto “Piano degli Scotti” in prossimità del Faro della Guardia, edificio risalente all’800 e annoverato tra i ‘Luoghi del Cuore’ scelti dal FAI. “Finalmente aggiungeremo agli altri una schiera di vini autoctoni che, a causa dei terreni paludosi, non facevano parte della storia di questo territorio”, spiega con orgoglio Santarelli. Comincia da qui la sua nuova sfida.