Benanti: quelli che ‘inventarono’ il vino sull’Etna

di Vittorio Ferla

“I piccoli produttori sull’Etna sono la stragrande maggioranza. Oggi possiamo contare più di cento aziende così. Ma 20-25 anni fa eravamo soltanto in quattro o cinque cantine capaci di produzione. Dieci anni fa una decina. C’è una grande potenzialità in tutti. Anche la nostra azienda da tre anni vive una piccola rivoluzione: generazionale e progettuale”. Antonio Benanti è un quarantenne elegante e appassionato. Mi

Antonio Benanti

Antonio Benanti

accoglie nella Tenuta di Monte Serra, poco sopra il centro storico del paese di Viagrande, a pochi chilometri da Catania. Un luogo di grande impatto. Sia per il palmento storico che ospita e, di conseguenza, la storia che qui si conserva. Sia perché da qui si accede al Monte Serra, un cono eruttivo spento, popolato da viti centenarie, dove nasce il cru Serra della Contessa. Insieme con il fratello gemello Salvino, Antonio ha preso in mano da qualche anno le redini dell’azienda, subentrando progressivamente al padre Giuseppe. Una impresa nell’impresa – se vogliamo – perché il nome di Giuseppe Benanti sull’Etna è ‘pesante’.

 

Una storia di famiglia, tra farmaceutica e viticultura

La nostra è una storia originale: l’attività di mio padre era soprattutto in campo farmaceutico. Alla fine

Giuseppe Benanti

dell’Ottocento, il bisnonno Giuseppe possedeva dei vigneti a Viagrande: un classico esempio di piccolo proprietario terriero della zona, come ce ne sono migliaia. Mio nonno è il primo che si laurea in famiglia: trascura la campagna, ma non la vende. Studia oculistica e oftalmologia. Diventa farmacista, uno dei primi a Catania, infatti la sua farmacia aveva matricola 11! È un fenomeno generale: la generazione di mio nonno trascura l’attività di campagna almeno fino agli anni ’70. Prevale l’impegno per l’azienda farmaceutica oftalmica. Mio padre Giuseppe si laurea in farmacia. Da bambino, però, faceva la vendemmia e trascorreva il tempo con il nonno. La fiammella della viticultura era rimasta accesa, l’attività principale è quella farmaceutica, prima in Italia, poi anche all’estero.”

 

Voglia di qualità: una svolta di vita e d’impresa

1La svolta avviene nel 1988. Antonio la racconta così. “Mio padre si trovava al Circolo del golf di Castiglione, Il Picciolo, a pranzo con Francesco Micale, un amico medico. Chiedono del vino. Ma il vino dell’Etna non è nella carta. ‘Possibile che non si possa fare nulla di meglio? Con la storia che abbiamo?’, si chiese mio padre che, nel corso della sua attività lavorativa, aveva viaggiato tanto e bevuto bene. ‘Se io conoscessi un buon enologo – disse – proverei a fare del vino!’ Aveva raggiunto dei successi, aveva disponibilità economiche e voglia di novità. L’amico medico gli rispose: ‘conosco un enologo catanese che lavora per altri in Sicilia’. Si può dire che l’azienda vitivinicola Benanti nasca lì”.

L’enologo catanese citato è Salvo Foti, un personaggio destinato a diventare in quegli anni un punto di riferimento per tutto il movimento del vino dell’Etna. Raggiunto dal farmacista Benanti, risponde così: “Non so esattamente come si fa, ma il potenziale è enorme”.

“Il vino l’avevamo fatto sempre nel Palmento – spiega Antonio – seguendo le tecniche tradizionali. Nessuno aveva fatto eccellenza sull’Etna. Salvo Foti faceva consulenze con ben altre cantine e qui trova un signore con disponibilità, carattere, energia e voglia di cominciare. Un signore che non si accontentava: ‘Non può essere questo l’Etna’. Appunto”.

 

L’esplorazione dei tesori dell’Etna

E così, Giuseppe Benanti chiama un gruppo di consulenti: Rocco di Stefano dell’Istituto di Enologia di Asti, Jean Siegrist, professore di Enologia all’Università di Beaune in Borgogna, gli esperti piemontesi Monchiero e Negro direttamente dalle Langhe. In pratica, “riunisce sull’Etna le eccellenze del vino – racconta Antonio. Aveva entusiasmo, esperienza, radici. Ma non poteva fare riferimento a nessuno a livello locale: nessuno allora ci puntava. Il gruppo di lavoro fa una selezione di territori sull’Etna. All’epoca sull’Etna si trovavano sia varietà autoctone (Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio e Carricante) che alloctone: l’obiettivo di mio padre era quello di scoprire e svelare il potenziale delle varietà autoctone e delle diverse zone vocate. Realizza diverse prove di microvinificazione per cogliere il potenziale di queste uve. Si fanno confronti. Per esempio, il Carricante cresce bene sul versante Est del vulcano fino a Sud Ovest. È una varietà più fragile, ha bisogno di buona illuminazione. Si capisce che bisogna puntare a Nord – Castiglione – per i rossi. E a Milo per i bianchi. I terreni di Viagrande si aggiungono nel 1998. La tenuta di Monte Serra apparteneva a dei parenti di mia madre. Papà si innamorò di questo posto e nel tempo è riuscito a riunire i diversi proprietari e ad acquistarlo”.

Monte Serra rappresenta uno dei poli dell’azienda. Il primo polo è a Castiglione: infatti, il nome originario dell’azienda, almeno fino al 1994, è Tenuta di Castiglione. L’altro polo è a Milo, versante Est del vulcano. L’ultimo polo si trova a Contrada Cavaliere, a Santa Maria di Licodia, nella zona sudovest dell’Etna, dove Benanti gestisce i vigneti per conto di terzi.

 

L’avanguardia degli anni ’90

Bottiglia di Pietramarina

“Il primo imbottigliamento risale al ’90: è l’annata spartiacque. Da quel momento si cerca di lavorare su un prodotto di eccellenza, ma i vini non si commercializzano subito. L’esordio sul palcoscenico del Vinitaly è del ’93: a Verona si presentano il Rovittello, rosso, e il Pietra Marina, bianco”. Quest’ultimo diventerà un vino ‘icona’. Non soltanto della vitivinicola Benanti, ma di tutta la viticultura dell’Etna.

Alla fine di questo lavoro, Giuseppe Benanti ha in mano un ampio materiale conoscitivo dal quale derivano prodotti di altissima qualità. Una qualità omogenea dei vini conquistata dopo un lavoro di avanguardia. Gli anni ’90 sono pionieristici. L’attenzione di oggi per le contrade dell’Etna non esisteva nemmeno lontanamente. Non c’era ancora internet: per 10 anni l’azienda si fa conoscere grazie al passaparola e alle recensioni. Per Benanti, uomo impaziente, amabile, attraente e visionario, il mondo della farmaceutica era noioso mentre, in quello del vino, lui avrebbe potuto trovare uno spazio adeguato. Nel 2007, la cantina Benanti è nominata “Cantina dell’anno” del Gambero rosso, quando il responsabile era Daniele Cernilli. Possiamo dire che altri, negli anni successivi, hanno ‘scoperto’ l’Etna. Ma certamente Benanti l’ha ‘inventata’.

 

Con il nuovo secolo, arrivano i ‘nuovi’

Franchetti e De Grazia sono arrivati dopo. Scoprirono l’Etna anche grazie a Benanti. Franchetti assaggiò il nostro bianco. Arrivarono con idee chiarissime sul da farsi. Invece, mio padre era in ricerca: il suo percorso sperimentale ha spianato la strada ad altri, forse maggiormente capaci di aggregare.”

L’inizio del terzo millennio porta, dunque, delle novità. Da un lato, Benanti segue una strada tutta sua. E cambia ancora. “Mio padre – spiega Antonio – fa un azzardo. Investe a Pachino, zona tipica del Nero d’Avola e del Moscato di Noto. Acquista 64 ettari di vigneto e realizza quattro vini. Anche lì si raggiunge ottima qualità, ma il lavoro è dispersivo”. Nel 2001, però, arrivano Franchetti e De Grazia. “In quel momento,DSC00169 probabilmente, serviva di più specializzarsi sull’Etna. Marc De Grazia, all’inizio, si appoggia da noi: dopo quattro anni, però, va via. Nel frattempo, noi promuoviamo Enzo Calì, che era molto giovane (è un classe ’75): è un dipendente a tempo pieno e ha la possibilità di seguire la strada indicata da Salvo Foti che finisce il suo rapporto di consulenza nel 2011. Enzo Calì dal 1994 al 2011 cresce con noi, capisce cosa vuole la proprietà, affronta diverse vendemmie, assaggia. È stato cantiniere, ‘ma è un enologo’ diceva Salvo Foti”.

 

Continuità e differenze nello stile del vino

Che cosa cambia nell’approccio enologico da una gestione all’altra? “Salvo Foti – spiega Antonio – non aveva un pregresso. Così, nei primi anni di attività, lo stile nasce insieme, dal confronto con la proprietà. Si punta su scelte classiche: vini seri, austeri, adatti per accompagnare il cibo. Salvo era influenzato dalle abitudini del momento: usava molto il legno, anche nel vino base. In quegli anni tutta la massa faceva legno. La coppia Foti-Benanti aspettava tantissimo: le bottiglie andavano in commercio dopo 6-7 anni di maturazione e invecchiamento. Quando abbiamo promosso Enzo Calì qualcosa è cambiato: in primo luogo, meno legni o più grandi; poi, uso di lieviti selezionati dalla nostra cantina. Nel 2005 nasce l’idea di selezionare lieviti autoctoni: li abbiamo brevettati su quattro ceppi per Carricante, Carricante spumante, Nerello mascalese e Nerello cappuccio. E cominciamo a usarli nel 2010. Si punta a una maggiore tipicità dei vini, senza lieviti commerciali ma con lieviti selezionati. I vini di partenza fanno solo acciaio. Cerchiamo di dare più pulizia, tipicità ed eleganza ai rossi. In passato, si consideravano grandi i vini che esprimevano aromi terziari: oggi ci piace trovare il frutto e vogliamo prodotti più rispettosi del territorio.

Bottiglia di Rovittello

Bottiglia di Rovittello

L’attesa per realizzare un vino di qualità, però, resta: aspettiamo quattro anni per il Rovittello, il Pietra Marina, il Serra della Contessa, che sono i nostri cru; tre anni per i monovitigni; due anni per i vini di partenza. Dalla nostra cantina non vengono mai vini giovanissimi, è il nostro specifico: abbiamo sempre pazientato e non vogliamo seguire la moda dei vini molto giovani. Il vino ha bisogno di tempo per trovare equilibrio e amalgama. Così, variamo le contrade, ma l’invecchiamento e l’affinamento sono lunghi. Questo è un costo più alto, anche perché molti vigneti sono ad alberello. D’altra parte, trattiamo uve – Nerello e Carricante – che non si prestano a vinificazioni accelerate”.

 

Una nuova generazione di imprenditori del vino

Ci sono novità importanti anche nella gestione dell’impresa. “Oggi l’azienda è guidata da me e da Salvino. Dedichiamo il 100% del nostro tempo al vino. Ho studiato da sommelier, ho trascorso 10 anni a Londra, 3 in Svizzera, 2 anni in Messico e Francia, facendo esperienza nei campi della finanza e del farmaceutico. Il vino è un progetto di vita: tanto che abbiamo venduto la nostra quota della farmaceutica. Il mondo del vino è un’altra cosa.”

Ma servivano progetti nuovi: l’azienda era ancora troppo legata a Foti e Benanti. “Abbiamo venduto i terreni di Pachino: ci siamo resi conto che, mentre sull’Etna crescevano gli altri, noi che abbiamo iniziato tutto stavamo disperdendo energie. E poi abbiamo detto basta anche ai blend con gli alloctoni: noi della nuova generazione abbiamo recuperato la territorialità. Vogliamo puntare anche sulle visite in cantina, privilegiando la qualità e aprendo agli eno-appassionati e professionisti del mondo del vino. In tre anni abbiamo cambiato la rete commerciale, vendiamo in 28 paesi. Il 30% delle bottiglie è venduta in Italia, il 70% fuori. Metà del mercato estero è negli Stati Uniti: soprattutto New York, California, Chicago. Il secondo mercato è il Giappone, poi viene Londra. Siamo forti in Francia e Scandinavia. Arriviamo fino a Singapore, in Australia e in Canada. Produciamo 150 mila bottiglie, ma abbiamo potenzialità di crescita con 30mila bottiglie sotto la domanda di mercato.

Basta dare un’occhiata al profilo Facebook di Antonio per capire la sua personale passione e la dimensione internazionale dell’azienda. “Ci siamo fatti conoscere in giro per il mondo. Passiamo tanto tempo in cantina, ma siamo diventati pure dei grandi comunicatori: il vino è anche comunicazione. Mio padre è felice che qualcuno abbia raccolto il testimone.”

Un nuovo corso di ambasciatori dell’Etna, insomma, fatto di storia, qualità e innovazione. E molto apprezzato a livello internazionale. Basti leggere i pareri autorevoli di personaggi come Monica Larner, corrispondente dall’Italia di Wine Advocate (“Benanti è sinonimo dell’Etna”) o come Ian d’Agata, oggi direttore scientifico del Vinitaly (“quelle di Benanti sono tra le migliori espressioni di Carricante e Nerello”).

 

Tra grandi progetti e cultura del bere

Antonio Benanti e Giacomo

Antonio Benanti e Giacomo Gravina

“Oggi – aggiunge Antonio – ci piace anche fare sistema con altre cantine (per esempio, vinifichiamo per Romeo del Castello e imbottigliamo il vino di Ciro Biondi ) e segnalare le migliori realtà enogastronomiche dell’Etna. Infine, abbiamo ancora grandi progetti: una cantina nuova, più comoda; la valorizzazione di nuovi ettari a Milo e Rovittello per arrivare alle 200 mila bottiglie di produzione. Vorremmo arrivare, poi, a 8-10 vini: la vendemmia 2016 del Nerello mascalese sarà divisa in due ‘contrade’; in più realizzeremo un nuovo Carricante proveniente dalle vigne di da Sud Est”.

Dopo la degustazione di alcuni vini e una passeggiata alle pendici del Monte Serra, a 500 metri sul livello del mare, la mia visita si conclude a Rovittello, la frazione di Castiglione di Sicilia a 750 metri s.l.m., dove i Benanti producono uno dei loro cru e stanno lavorando nuovi ettari in vista dei progetti futuri. Antonio mi accompagna con entusiasmo alla scoperta di queste nuove vigne e del casale semidiroccato che sarà ristrutturato, in compagnia di Giacomo Gravina, l’agronomo dell’azienda. Porta dentro di sé tanta storia, ma adesso ha voglia di raccontare il futuro. Alla fine della mattinata, mi invita a consumare un pasto con i suoi ‘vigneri’, alcuni dei quali vengono direttamente dalla ‘scuola’ di Salvo Foti. Uno di loro porta i formaggi realizzati con le sue mani, il pane fresco e il pollo cucinato in casa. Appoggia tutto sul portellone posteriore del fuoristrada e comincia un picnic arrangiato, fatto di gesti antichi, semplici, accoglienti. D’altra parte, come dice Antonio Benanti, “bere vino dell’Etna è un’esperienza culturale”.