I vini Costantino: quella linea rossa tra le lave

Vittorio Ferla

 

Dal podere dei Costantino si vede il mare. E’ la prima cosa che viene in mente quando si arriva in cantina dalla strada che viene da Catania. E l’ultima cosa che resta in mente dopo la visita in azienda. In mezzo, ovviamente, c’è tanto altro. Siamo a Viagrande, sul versante Est dell’Etna. Qui le vigne sono illuminate fin fa mattino dal sole che sorge a oriente, dalle acque dello Ionio. La brezza del mare rinfresca le viti di giorno e allontana l’umidità di notte. Una posizione straordinaria che evita le gelate invernali. La famiglia Costantino, come tante della zona, ha una storia minore di produzione di vini sfusi. L’impresa è giovane, essendo nata dopo la ‘conquista’ dell’Etna da parte di alcuni pionieri che vengono da fuori.

 

Tra il cantiere e la vigna

“Marc De Grazia, Andrea Franchetti e Frank Cornelissen sono stati i primi. Ci hanno aiutato ad uscire. De Grazia è una figura interessante e originale, ha una grandissima capacità di vendita. Cornelissen lo capisco meno. Mi sento molto vicino a Benanti e Biondi: sono nati qui, sono quelli che più si avvicinano al giusto mix tra tradizione e innovazione, i loro prodotti mi sembrano più ‘comprensibili’. L’Etna è in un momento di evoluzione tumultuosa. Ma se ne parla più di quanto se ne venda. Nicchia è e nicchia rimarrà: non è il Prosecco né il Nero d’avola”.

Fabio Costantino, che ci accompagna nella visita, parla con schiettezza della sua recente esperienza sul vulcano. “Io sono un ingegnere. La mia attività principale è quella di costruttore. Il periodo di crisi dell’edilizia è stata una delle cause di questa impresa. Anche il fatto che la campagna si trovi qui, a pochi chilometri e minuti dalla città, è stato uno sprone per occuparsene con costanza. L’altra causa? Il desiderio di mettere in bottiglia il vino che abbiamo sempre prodotto in questa campagna. Il focus della nostra famiglia è sempre stato sulla vigna. L’appassionato è sempre stato mio padre. Abbiamo sempre avuto il desiderio di coltivare e di produrre poi il vino sfuso per i passanti”.

 

Più attenzione alla qualità delle uve

La Contrada principale dove insistono i terreni dei Costantino si chiama Blandano. Da qui il nome dei due ‘cru’. In zona ci sono diversi casali, alcuni dei quali risalgono alla fine del 1600. Sotto la strada che da Catania porta all’Etna c’è anche la Contrada Cannarozzo, altri 2 ettari di vigna sotto la strada.

“Il lato commerciale della produzione è proprio un altro lavoro. Sto imparando a conoscerlo lentamente. Nel 2012 abbiamo fatto le prime prove di imbottigliamento. Adesso con noi c’è un enologo toscano, si chiama Luca D’Attoma, non ha velleità di girare in elicottero come certi enologi star – sorride Fabio – ma fa vini di qualità ed eleganti. Grazie a lui abbiamo imparato molto. Ci dà molte indicazioni per coltivare il vigneto. Con mio padre c’è un rapporto dialettico: diciamo che si scontrano amabilmente, come due leoni”.

D’Attoma è sicuramente tra i migliori enologi italiani: noto per il Messorio de Le Macchiole a Bolgheri o per la passione per il Montepulciano d’Abruzzo, è impegnato oggi per sostenere i progressi di questa piccola azienda dell’Etna.

“Nella vecchia cantina non c’era tavola di selezione – confessa Fabio – raccoglievamo tutte le uve e scaricavamo sopra un paio di porte vecchie. Con Luca abbiamo cominciato daccapo, a partire da una grande attenzione alla qualità delle uve. Siamo di fatto ripartiti dal 2013 con nuove etichette provenienti da 10 ettari, per metà bianchi e metà rossi. Siamo in regime biologico dal 2001. D’Attoma dice che qui è facile per il clima”.

 

Un pezzo di storia contadina

Fabio Costantino mi porta in giro per la proprietà. Visitiamo un vecchio palmento, un edificio tipico in cui avveniva la pigiatura dell’uva per produrre il mosto che veniva riposto in grandi vasche. Dentro, non c’è la bottaia. “Qui il vino lo producevano soltanto – spiega Fabio – non era il posto per conservarlo. In questo palmento ci vivevano: la stanza da letto era ricavata nella vasca, la parete macchiata di fumo è il segno che qui si cucinava”.

E allora dove riposava il vino? “Qui vicino c’era un torrente. Trasportavano il vino a dorso di mulo, lo svuotavano in otri e carateddi e poi conferivano il prodotto nel palmento comunale di Viagrande dove c’era una cantina enorme. Andavano lì perché non avevano dove mettere il prodotto. Il piccolo palmento infatti stava aperto sulla mulattiera dove caricavano il vino”.

Ecco perché c’è un piccolo posto per la sosta dell’asinello. Inoltre, davanti al palmento c’è una pianta di fico d’India: “era funzionale alla produzione. Le pale del fico d’India venivano pestati e il succo serviva per oleare la vite della pressa. All’inizio era viscosa. Il succo delle pale è zuccherino, quindi appiccicoso, e serviva per evitare che la pressa scivolasse”.

 

Bio in vigna, bio in cantina

“Nelle vigne – continua Fabio – abbiamo scelto la strada della biodiversità. Abbiamo ciliegi, ulivi, mele, pere, susine, gelsi bianchi e neri, arance. Lo consideriamo un aiuto all’allevamento biologico. Ci avviciniamo quasi al biodinamico: d’altra parte, un tempo, il vecchio massaro lavorava qui con luna e vento. Pratichiamo il sovescio, un filare sì, uno no, con fave e piselli. Qui c’è sabbia vulcanica: in questo modo abbiamo un po’ di vegetale che sostituisce la chimica. Stiamo procedendo anche alla sostituzione dei pali di materiale plastico con quelli di castagno”.

Continuiamo la visita camminando verso la cantina, attraverso una sorta di fenditura nella roccia che mostra le diverse stratificazioni. “Qui si possono vedere le radici delle piante. Si tratta di alberelli che affondano le proprie radici per 10-15 metri. Le radici sono capaci di spaccare una roccia durissima. Questa è la colata Blandano di 3mila anni fa. Sotto c’è la terra rossa. Appena arriva la lava la sommerge, la cucina e diventa terracotta. Contiene i resti della vegetazione che c’era, ha una consistenza organica più vicina all’argilla. La pianta dell’uva continua a vivere cercando il nutrimento là sotto”. Davvero suggestivo osservare i diversi strati di questo terreno in cui i terreni argillosi si alternano ai terreni lavici di diverse migliaia di anni. Da qui nasce il nome stesso dell’azienda: terra.

La cantina è una costruzione recente. Qui Fabio ha investito le sue competenze e risorse. “La cantina è tutta ipogea, costruita nel 2015 secondo i dettami della bioarchitettura. Abbiamo anche un sistema di recupero dell’acqua piovana per l’irrigazione. Usiamo la ‘chiara’, una terra rossa che, impastata con la calce, serve per decorare naturalmente la facciata. Il colore grigio, invece, è dato dalla pietra lavica macinata per gli intonaci”. Fabio Costantino ci mostra la zona di ricevimento dell’uva, il tavolo vibrante, la cella frigo e ci racconta i vari passaggi della lavorazione: “l’uva fredda viene trattata delicatamente, come se fosse un bambino piccolo, senza stress, praticamente con sedute psicologiche”, dice con un pizzico di ironia. Nelle pareti nuove della cantina restano delle aperture per mostrare quella linea rossa tra le colate laviche.

 

L’Etna madre

“La notte la passo a studiare”, confessa Fabio. “Adesso capisco di tignolette, ferormoni e confusione sessuale. Prima non sapevamo nemmeno cosa significasse coltivare la vigna con cura e produrre del vino di qualità. Oggi produciamo 25 mila bottiglie e il resto diventa vino sfuso. Siamo lieti di contribuire a fare il nome di questa parte dell’Etna. Si parla quasi sempre di Etna Nord, ma il bianco è più a Sudest, qui dove siamo noi: è questa la zona più vocata per il vino bianco dell’Etna con Carricante, Catarratto e Minnella. Abbiamo anche delle terre in affitto a Biancavilla, 5-6 ettari in tutto dove si coltiva Nerello mascalese a 700 metri. Lì c’è più caldo. Diamo noi la linea sul metodo di allevamento, ma i nostri partner sono persone molto scrupolose. D’altra parte, il Nerello è un’uva particolare: delicato per certi versi, spigoloso per altri. Devi dominarlo non è facile”. La strada è tracciata. Questa giovane azienda comincia a proporre prodotti davvero interessanti e piacevoli, capaci di ambire ad alti punteggi di qualità. Li abbiamo assaggiati con soddisfazione (potete leggere la nostra degustazione qui): i bianchi del versante SudEst non tradiscono con la loro mineralità; una menzione particolare va all’originalità del rosato e all’eleganza del rosso. Val la pena seguirne l’evoluzione nei prossimi anni.

“Anche l’Immagine aziendale è stata riscritta – racconta Fabio. C’era il rischio di omonimie con una azienda Costantino di Partinico. Volevamo usare il termine ‘Vigne’, ma non è possibile per motivi burocratici: noi non siamo una vigna ‘storica’. E così ci siamo chiamati Terra Costantino. Le etichette le ha fatte una ragazza di Linguaglossa. I pur fantastici studi grafici di Milano e Roma non capiscono l’Etna. Noi abbiamo scelto un’Etna dolce. L’ Etna è madre. Negli Idilli del poeta Teocrito abbiamo scoperto una frase bellissima che rappresenta la nostra idea dell’Etna. E l’abbiamo scelta per le nostre etichette: ‘Etna, madre mia, anch’io ho una bella grotta tra le cave rocce’”.