Luca Sani: l’agroalimentare italiano è nato per vincere

di Ilaria Donatio

 

Referendum sulle trivelle, territorio, agroalimentare, cambiamenti climatici e viticoltura, spreco alimentare e agricoltura biologica, Ogm e filiera corta. Di tutto questo abbiamo discusso con Luca Sani, presidente della Commissione Agricoltura alla Camera dei deputati, originario di Massa Marittima, nel grossetano. “Vengo da una famiglia di contadini e minatori:  il rapporto con il territorio non è solo accessorio, dunque, potremmo dire che ce l’ho nel mio patrimonio genetico”, esordisce il deputato Pd.

– Quanto hanno inciso le origini maremmane sul suo lavoro?

Moltissimo. Ricordo sempre il significato del termine Maremma che vuol dire proprio “terra strappata al mare“. Lo sa che da anni, il deputato che la Maremma esprime, va in Commissione Agricoltura? Un territorio che esprime un misto di cultura, ambiente ed enogastronomia, tutti elementi che – in misura diversa – si intrecciano continuamente.

– Lei al Referendum di domenica scorsa (che si è risolto in un nulla di fatto per non aver raggiunto il quorum previsto dall‘art.75 della nostra Costituzione), ha votato NO. Perché?

Mi impegno in un settore in cui i trattori, le pompe di irrigazione, le caldaie per le serre, i motori dei pescherecci, i mezzi che trasportano prodotti freschi e conservati (anche quelli biologici) vanno a gasolio. Ritengo un errore la rinuncia a quel poco di risorsa nazionale già in sfruttamento per aumentare l’approvvigionamento attraverso pericolose petroliere da paesi che per le fonti fossili fanno guerre o finanziano il terrorismo. Mi richiamo anche alla mia personale, modesta e marginale cultura mineraria, a cui però sono intimamente affezionato, che mi fa essere fraternamente solidale con i lavoratori impegnati nel settore. Ciò detto, sostengo con convinzione il piano delle rinnovabili del Paese, rispetto le posizioni del Sì e  comprendo il senso dell’astensione, pur ritenendo questo referendum assurdo e ipocrita.

– Si è appena concluso il Vinitaly (il Salone internazionale dei vini e distillati che si è chiuso a Verona il 13 aprile): lì, con il ministro delle Politiche Agricole, ha presentato il “testo unico della vite e del vino”, che Martina ha definito “un lavoro importante di sintesi e di innovazione”. Ci spiega l’obiettivo di queste nuove norme?

L’obiettivo del “testo unico della vite e del vino”, approvato il 6 aprile scorso in Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati è, da un lato, unificare tutte le disposizioni che disciplinano la materia del comparto vitivinicolo (un settore che vale più di 14 miliardi di euro) – attualmente contenute in svariati testi normativi – e dall’altro sburocratizzare quanto più possibile il settore. Il testo – che ora andrà avanti nell’iter parlamentare per arrivare alla sua approvazione definitiva – oltre ad unificare le disposizioni normative, punta anche ad una reale semplificazione dei procedimenti, attraverso un coordinamento e un’armonizzazione delle diverse fonti.

 

– Di cosa si occupa la Commissione Ambiente in questo momento?

Abbiamo il Testo Quadro sulla pesca – che dovrebbe andare in Aula a fine aprile – che introduce la normativa sull’acquacultura che non era ancora normata e che ha invece grandissima utilità, perché tra pescato e allevato, in Italia copriamo il 30% del prodotto nazionale, mentre il 70% del pesce che arriva sulle nostre tavole è di importazione. Dunque, c’è uno spazio incredibile non solo dal punto di vista dell’impresa ma anche da quello della qualità del prodotto e della tutela del consumatore.

Siamo in attesa che torni il testo, già approvato, sul sostegno alla filiera, tutta italiana, della canapa, coltivazione che può dare supporto anche ad aree marginali, in cui è difficile praticare altri tipi di agricoltura.

Dobbiamo ultimare il pdl sull’agricoltura biologica perché eravamo in attesa dell’approvazione del regolamento comunitario di settore: l’Italia ha una domanda interna di biologico superiore di 3/4 volte a quello che riesce a produrre. Questo perché esiste ed è ormai diffusa una sensibilità da parte del consumatore molto elevata ma il problema che l’offerta non è sufficiente. Il regolamento comunitario sul bio pareva, inizialmente, che negasse la possibilità che – all’interno della stessa azienda – potessero convivere convenzionale e bio (divieto che per noi era di ostacolo in quanto tutti i processi di trasformazione non dovrebbero essere resi traumatici dal legislatore ma accompagnati e facilitati): ora, risolta questa contraddizione, chiediamo che anche le risorse messe a disposizione dalla Pac, nei margini consentiti dallo Stato nazionale e dalle Regioni, siano orientate per la maggior parte al biologico, sia per rispondere alla domanda del consumatore che per dare un contributo alla questione ambientale.

Ancora: abbiamo un provvedimento sull’agricoltura contadina che vorrebbe valorizzare le piccole produzioni…

 

– Come legge tutta l’attenzione rinnovata che l’agroalimentare sta suscitando in questo periodo storico?

C’è un grande fermento: soprattutto, abbiamo intercettato un enorme interesse da parte delle nuove generazioni rispetto a tutto quello che è l’universo dell’agroalimentare e nonostante tutti i provvedimenti, in cantiere o già approvati, e le risorse liberate, ancora non basta perché la domanda è superiore. Siamo in una situazione in cui il valore aggiunto dell’agricoltura è in crescita, gli occupati crescono, i giovani che si avvicinano al settore hanno sempre più riscontri.

Allo stesso tempo, però, il numero delle aziende agricole diminuisce: c’è una perdita sia in termini di quantità delle aziende che in termini di ettari coltivati. Diminuisce perché non c’è ricambio intergenerazionale. Ecco, per governare questi cambiamenti e riequilibrare domanda e offerta, dobbiamo puntare sulla multifunzionalità dell’impresa agricola: se l’agricoltura “tradizionale” si limita ad alcune produzioni, va in crisi. Solo differenziandosi, riesce a stare sul mercato: la chance per avere una possibilità in più, è specializzarsi, soprattutto su marchi a denominazione di origine di cui il nostro Paese è ricchissimo. Lo sa che ogni Comune italiano è toccato da almeno una denominazione di origine?

 

– Cosa rende l’Italia realmente competitiva sul mercato mondiale?

Noi possiamo competere sulla qualità e dobbiamo salvaguardarla con tutte le azioni in nostro possesso: dalle certificazioni alle campagne di informazione. I prodotti “generici” dobbiamo lasciarli fare agli altri: latte, riso e frumento, tutte le commodities.  Il governo, per la prima volta, ha stanziato un pacchetto di risorse  per la promozione del Made in Italy nel mondo.

 

– Due azioni fondamentali da portare avanti: quali sono?

Educare il consumatore e occupare nuovi mercati che ancora non ci conoscono e dunque ci imitano: ecco due armi contro l’Italian sounding. L’agroalimentare ha raggiunto la cifra record di 37 miliardi di export, 4 in più rispetto allo scorso anno. Ecco il motivo per cui abbiamo avviato una serie di investimenti sulla logistica.

Noi esportiamo in tutto 5,4 miliardi di vino ma, ad esempio, in Cina ci siamo con mezzo miliardo soltanto. C’è un margine di crescita incredibile: la differenza sta nel fatto che mentre la Francia ha iniziato a realizzare piattaforme di logistica coordinando il proprio export in modo coerente, noi lo abbiamo fatto in maniera frammentaria, a livello delle singole regioni.

 

– Quali sono i mercati emergenti secondo lei?

Cina, poi l’Est Europa e anche l’America Latina che sta diventando interessante ma è ancora poco competitivo per ragioni doganali e fiscali.

 

– Le aspettative dell’agroalimentare italiano dopo l’Expo: quali sono?

Portare l’export a 50 miliardi nel 2020: per farlo occorre accompagnare questo settore. Alludo sia ai processi di innovazione normativa che all’uso di risorse provenienti dall’Unione europea: questo vuol dire maggiore ricerca e innovazione.

 

– A proposito di ricerca. Qual è il rapporto tra cambiamenti climatici e viticoltura?

Ci sono due aspetti da prendere in considerazione. Il primo: che tipo di contributo l’agricoltura può dare per limitare i cambiamenti climatici. Qui entra in campo il ruolo della ricerca: per limitare le emissioni inquinanti nell’atmosfera, dobbiamo eliminare le fonti che inquinano (es. i trattamenti di fitosanitari sulle viti immettono sostanze che incidono sul clima). In questo senso, occorre finanziare la ricerca che può contribuire a selezionare vitigni la cui resistenza agli attacchi dei patogeni sia maggiore, in modo da diminuire l’utilizzo di fitosanitari. Il secondo aspetto: capire come cambia la produzione di vino al cambiare del clima (perché la componente zuccherina, all’aumento del caldo, aumenta insieme all’alcol, entrambi fattori che cambiano le caratteristiche del vino). Occorre capire dunque come condizionare il cambiamento oltre che riuscire ad anticiparlo. Su questo punto, sulle biotecnologie, il Ministero ha destinato 20 milioni di euro che comprendono anche la ricerca nel settore vinicolo.

Poi c’è tutto il tema delle acque: l’agricoltura continua ad essere il settore più energivoro in assoluto e bisogna investire, in un’ottica di risparmio energetico, sulla ricerca dedicata all’agricoltura di precisione: quanta acqua usare e come distribuirla sul territorio.

 

– Sullo spreco alimentare abbiamo finalmente una legge: esiste un tipo di certificazione “zero waste”, una sorta di bollino che attesti lo sforzo del produttore di aver sprecato poco e niente durante il processo di produzione?

Sì, la legge è passata al Senato dopo essere stata approvata alla Camera: abbiamo messo mano a un fenomeno che solo da noi vale più di 12 miliardi di euro all’anno e risolto la contraddizione secondo cui se distruggevo le eccedenze, godevo di benefici sull’Iva mentre se le distribuivo, no. Sarebbe interessante tracciare quelle produzioni i cui processi si sono distinti per aver ridotto gli sprechi nelle diverse fasi dei processi. Tanto più, per tutto il discorso sull’agricoltura di precisione, ad esempio per certificare il minor consumo del suolo e dell’acqua…

 

– Cosa pensa delle coltivazioni Ogm? 

Non vedo affatto un rischio per la salute umana, sollevo piuttosto una ragione di opportunità e, se vogliamo, di buon senso: noi abbiamo un gamma di biodiversità territoriale straordinaria e questo è esattamente il motivo per cui il nostro agroalimentare è attrattivo rispetto al resto del mondo. Dai vitigni, al pomodoro, alla zootecnia: che motivo abbiamo per fare coltivazioni transgeniche? Sarebbe in contraddizione con la politica dei marchi che stiamo portando avanti.

Discorso diverso è la ricerca genetica sul prodotto agricolo: se sui vitigni devo fare una ricerca perchè addormentando un gene, rendo quella pianta più forte, penso sia utile farlo. In America, per esempio, hanno isolato un gene che produceva all’interno della patata una sostanza altamente cancerogena, durante la cottura. Ecco, naturalmente, in questo caso sono d’accordo. Noi siamo leader in Europa per le denominazioni di origine, se introduco l’Ogm senza paletti, perdo esattamente la mia specificità: ripeto, noi non possiamo competere sulle distese di frumento o di mais con il Canada e la Russia.

– Alleanza tra agroalimentare e alta cucina: quale è il senso?

Un grande veicolo di promozione: se il consumatore si chiedesse sul serio oltre che “come mangia”, anche “cosa mangia”, farebbe solo bene all’agricoltura italiana. Carlin Petrini dice: “Mangiando, si compie un atto agricolo”: io sto cercando un modo per tutelare la gastronomia italiana anche dal punto di vista legislativo.

Il primo articolo del Testo unico della vite e del vino, recita: “Il vino italiano è un patrimonio culturale nazionale”. Questo perché attraverso la storia culturale del vino raccontiamo tanta parte del Paese, del suo paesaggio, l’arte, l’ambiente.

L’Italia è conosciuta nel mondo proprio per le sue opere d’arte e i suoi prodotti enogastronomici e questo valore va tutelato e valorizzato: la stessa dieta mediterranea è riconosciuta dall’Unesco, Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.

 

– Ma quanto è realmente democratico il “buono pulito e giusto” di Slow food? Ce lo possiamo permettere tutti?

Io non credo ci sia un conflitto tra filiera corta ed altri sistemi di approvvigionamento dell’agroalimentare, l’importante che sia data la possibilità di avere un tipo di alimentazione sana e corretta alla platea più larga possibile. Non sono per le guerre di religione tra biologico e convenzionale o tra prodotto Dop e non certificato. Penso che avanguardie come Slow Food abbiano avuto il merito di aver contribuito a sviluppare una cultura della produzione e della alimentazione che presa con buon senso ha fatto crescere questa sensibilità che i cittadini italiani hanno in larga parte sviluppato.