“Ho inventato io il primo Festival del cibo di strada”

di Ilaria Donatio

 

Lo “street food” – il cibo preparato, venduto e consumato per strada – ha contagiato, secondo la stima di Coldiretti, 35 milioni di italiani perché “concilia l’esigenza del risparmio con la scoperta del territorio e dei suoi prodotti tipici da poter gustare proprio in strada passeggiando”.

La novità sta tutta nell’offerta gastronomica, sempre più vasta, che le “apette” – gli storici furgoncini a tre ruote che ancora sfrecciano per le stradine di campagna del Sud Italia – propongono agli avventori. Sì, perché ormai è possibile assaggiare proprio di tutto: dai panini con la carne affumicata in stile americano allo gnocco fritto parmense, dalla parmigiana di melanzane agli arrosticini abruzzesi, dalle polpette al panino col polpo. E tutto questo ben di Dio, dal 2014 ha anche un festival: si tratta primo festival itinerante interamente dedicato al cibo di qualità su ruote, lo Streeat Food Truck Festival e Federico Trotta, che abbiamo intervistato, ne è l’ideatore e il coordinatore.

 

Come è nata l’idea di un Festival dello street food?

Io vengo dagli studi di Scienze Gastronomiche, a Pollenzo, Università di Slow Food, e in questi anni, ho avuto modo di conoscere tantissimi eventi dedicati al settore. Parallelamente, mio padre (Claudio Trotta con il suo Barley Arts Promotion ndr) organizza eventi musicali dagli Anni ’70: io sono nato, praticamente, dentro un concerto!

Due anni fa, guardavo un documentario in tv che affrontava il tema dei Food Truck negli Usa: lì da tempo il cibo di strada è molto diffuso nella cultura e nella pratica quotidiana. Così, ragionandoci su, con mio padre abbiamo fatto una ricerca sui Food Truck in Europa, ne abbiamo selezionati alcuni  – quelli che ci convincevano di più – e abbiamo provato a invitarli a venire in Italia.
Purtroppo gli ostacoli burocratici sono stati enormi: per esercitare un’attività temporanea, anche della durata di un weekend, qui occorre aprire una partita Iva temporanea. Il risultato è stato che non ha risposto nessuno e questo ci ha convinti a rivolgerci ai pochi italiani che nel frattempo avevano avviato un’attività di Food Truck, con le caratteristiche che hanno ora: attenzione all’aspetto gastronomico e a quello del design e della presentazione.
Poi cosa è successo?
A maggio 2014 alla Fabbrica del vapore siamo riusciti a fare la prima assoluta, con un festival a Milano – la nostra base operativa – portando circa 15mila persone con 16 Food Truck. Adesso, abbiamo già organizzato 4 edizioni arrivando a cinquanta camioncini: siamo cresciuti molto, insomma.
Lo sviluppo successivo è che abbiamo pensato di far diventare il festival un evento itinerante: uno sviluppo che è stato una conseguenza naturale trattandosi di “cucine mobili”.
Solo quest’anno abbiamo toccato otto città diverse, con undici edizioni, replicando l’evento a Milano, Firenze e Roma (in primavera e in autunno: le due stagioni che preferiamo per il clima favorevole).
A quali aspetti prestate la massima attenzione?
Oltre al cibo, selezioniamo anche la musica, aspetto che ci caratterizza molto ed è curato da mio padre a seconda del posto e del pubblico. Direi che il tema dominante è sempre la qualità, declinata nelle sue varie forme.
La nostra non è una fiera ma un festival perché c’è una direzione artistica seguita direttamente da me.
Come avviene la selezione dei Food Truck?
Abbiamo una lista di oltre 100 operatori, approvati da noi, e che rispettano i nostri parametri: offrire un prodotto di qualità, il più possibile ricercato, magari mono-prodotto (a garanzia di una qualche specializzazione). Più che scegliere il prodotto, scegliamo i produttori!
Noi abbiamo contribuito anche a creare una rete tra di loro che in questo modo condividono obiettivi comuni e si scambiano consigli e servizi, ottimizzando la loro logistica negli spostamenti.
Quello che ci piace è mettere insieme persone che sono accomunate da uno stesso approccio rispetto a quello che vendono: c’è una logica dietro tutto questo, poi, può piacere o meno, ma c’è.
Un esempio: lavoriamo con 15 birrifici artigianali e tutti hanno una storia, una identità e riconoscimenti tali da essere diventati veri e propri punti di riferimento all’interno del panorama italiano.
Quali differenze esistono tra la fruizione del Festival nelle diverse città?
Da un punto di vista sociologico e antropologico, è interessante osservare la diversità di consumi tra una città e un’altra: a Udine, abbiamo preparato lo stesso numero di birre medie e di birre piccole (forse per poterne assaggiare di diverse). Cosa anomala, perché generalmente sono sempre di più birre medie; a Firenze abbiamo avuto un consumo di vino superiore a quello delle altre città; a Roma, tantissima birra e chiedevano l’acqua leggermente frizzante. Sono tutte piccole differenze che però sono utili a migliorare i servizi che offriamo. A Sud di Roma ancora non siamo scesi: lo faremo tra pochi mesi, a Bari.
Nella Capitale, le Ape Car vanno molto bene, anche nella quotidianità, a Milano molto meno: il clima è una variabile fondamentale in questo senso.
Il team con cui lavori com’è?
Tutti ragazzi sotto i 30 anni così come molto giovani sono anche il team dei Food Truck: come il mio amico Antonio, campano, mio coetaneo, che ha iniziato con la sua Ape car, a Milano, e ora ne ha tre e ha anche aperto due ristoranti.
Secondo te perché è tornata di moda propria la vecchia Ape?
L’Ape, oltre ad essere un mezzo di trasporto piccolo e logisticamente versatile, si porta dietro anche un bagaglio simbolico abbastanza evidente: a vendere cibo italiano, di alta qualità, non poteva che essere un veicolo di una casa italiana, per di più vintage.
Quali prospettive intravedi all’orizzonte?
In questo momento, stiamo assistendo a un ampliamento pazzesco del menu: qualsiasi cosa può diventare street food. Questo sviluppo del fenomeno, da una parte, è interessante e dall’altra porterà a un nuovo riequilibrio: solo alcuni cibi resisteranno e si confermeranno come cibo di strada.
In bocca al lupo!